Sab. Apr 20th, 2024

In occasione del sessantennio della morte, l’Unical dedica un’intera giornata al grande scrittore calabrese e Rubbettino pubblica la nuova edizione di “Un treno nel Sud”. Ecco alcuni stralci dell’introduzione di Vito Teti

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In occasione della pubblicazione della nuova edizione di Un treno nel Sud (Rubbettino), e dell’incontro “Alvaro tra Calabria, Mediterraneo ed Europa – Riflessioni nel sessantennio della morte dello scrittore” che si terrà mercoledì 16 novembre all’University Club dell’Unical, per gentile concessione dell’editore e dell’autore pubblichiamo alcuni stralci dell’introduzione di Vito Teti al volume di Alvaro.

Ci sono libri che conservi sparsi e spersi qui e là, che non apri mai o che non trovi quando li cerchi. Ce ne sono pochi altri, invece, che occupano posti segreti e speciali, dove vai a colpo sicuro, consapevole di trovare ogni volta qualcosa di nuovo. Un treno nel Sud di Corrado Alvaro appartiene per me a questa seconda lista: un testo con cui mi ritrovo spesso a dialogare. Un treno nel Sud è, innanzitutto, un viaggio di ritorno, racconta un nostos nell’universo di origine da cui Alvaro era andato via definitivamente nell’ottobre 1915, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, per poi compiere rari e brevi ritorni per trovare i familiari, per la morte del padre, per fare visita alla madre, che abitava con il fratello Massimo. Ritorni concreti che si sommano ai costanti ritorni letterari: nei suoi racconti, nelle sue Memorie di un mondo sommerso e anche in opere più apparentemente lontane da quel mondo, come ne L’uomo è forte e in Belmoro, le atmosfere e i motivi del mondo di origine di Alvaro affiorano di continuo. Di viaggi, del resto, Alvaro è stato un protagonista e narratore formidabile: Viaggio in Turchia, Terra nuova (Prima cronaca dell’Agro Pontino), I maestri del diluvio. Viaggio nella Russia Sovietica (poi Viaggio in Russia) aiutano a comprendere la struttura e il senso di un Treno nel Sud, ultimo, a sua volta, di una trilogia di viaggio di cui Itinerario Italiano e Roma vestita di nuovo costituiscono i primi due volumi. Resoconti sentimentali, letterari, etnografici scritti (la datazione è sempre difficile) tra la fine degli anni Quaranta (soprattutto 1948) e i primi anni Cinquanta del secolo scorso (ma Stagione sullo Jonio era apparso già ne L’amata alla finestra) e relativi a Napoli e alla Campania, alla Puglia, alla Sicilia e soprattutto alla Calabria, non solo perché è la sua terra di origine e quella che meglio conosce, ma perché la regione assurge a metafora dei contrasti, degli eccessi, dei problemi, dell’arretratezza, delle bellezze del Sud.

[…]

La «fuga» è il tema della vita meridionale e calabrese, ma è anche la parola chiave e ricorrente per entrare nell’animo di questo libro. Alvaro aveva già descritto la mobilità, la fuga, le trasformazioni seguite all’unificazione nazionale, alla discesa lungo le coste e le marine, alla costruzione della ferrovia e all’emigrazione di fine Ottocento e inizio Novecento e poi alla grande guerra. L’emigrazione per Alvaro è, certo, dispersione e anche erosione dell’antico ordine, ma anche scelta di libertà e di miglioramento delle condizioni di vita. L’emigrazione dava ai calabresi una vita e speranza. Non a caso il Sud ha combattuto tutte le guerre dell’Italia, considerandole un’evasione e una breccia per l’emigrazione. Con il nuovo grande esodo, che Alvaro descrive, in presa diretta, «l’Italia meridionale tenta un’evasione interna, si inserisce dappertutto, fornisce la burocrazia e la polizia: in altri termini, meridionalizza la nazione». L’immagine suggestiva che Alvaro ci consegna è quella «d’una primitiva tribù che abbandona una terra inospite». I personaggi dei racconti e romanzi di Alvaro sono figure inquiete ed erranti, in fuga dal luogo natio e sempre altrove, disadattati o inurbati sempre insoddisfatti. Qui Alvaro ci ricorda come si fugge e si rimpiange con pena; «si torna e si vuole fuggire: come con la casa paterna dove il pane non basta». Il calabrese fugge anche quando «sta seduto a un posto, in un ufficio o dietro uno sportello». La Calabria – ancora una volta elevata a metafora della condizione del Sud – «fisicamente o fantasticamente» è oggi in fuga da se stessa. Senza dramma, senza rancore, con la forza d’un fenomeno della natura, con dignità, con il suo pezzetto di pane in mano, i calabresi reagiscono con tutte le loro risorse a una condizione inferiore o servile. Con tutte le dure energie, cercano una condizione in «cui l’uomo sia padrone di sé e del suo destino». I «pezzenti» (una constatazione, non un’ingiuria) fuggono dove possono. E si capisce che abitare il sottosuolo di Milano è per essi un miglioramento, per lo meno è una speranza. Una fuga civile, che altrove avrebbe significato un pericolo, e in Italia diventa invece fondamentale, anche se impoverisce i luoghi da cui si parte.

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Incerto tra passato e presente, Alvaro vive e racconta un universo sospeso tra mondo dei padri e mondo dei figli, coglie le ragioni e l’anima della tradizione e intanto apre con fiducia alle novità, alla modernità, alla necessità del cambiamento. In Gente in Aspromonte aveva scritto che il mondo tradizionale si sfarinava come polvere al sole e come non ci fosse da piangere ma da raccogliere memorie. Lo scrittore adopera il termine «civiltà» anni prima di Carlo Levi e sente, dolorosamente, che con la fine del suo mondo è una civiltà millenaria a venire meno. Una lacerazione che è, innanzitutto, personale come comprende Alberto Moravia, che lo aveva descritto «un contadino del Sud, con qualcosa di chiuso e di dolente, come se si portasse dietro la nobile depressione del suo paese d’origine».
Eppure, in questo sgretolarsi e fuggire del suo mondo, lo sguardo di Alvaro riesce a cogliere lenti ma significativi mutamenti, per esempio in agricoltura. Tradizionali pianure malariche e squallide, come quella di Salerno, diventano terre favorevoli, splendide, di nuovo popolate. Nella Sicilia osserva operai collocare nuove tubature, messaggeri dell’industria moderna. Da quando conosce la Sicilia, è la prima volta che nell’interno gli capiti di vedere persone che adattano a terrazze di vigna alcuni costoni e cambiano, con questo, l’aspetto del paesaggio. Lo colpiscono anche, nel Sud che torna a visitare, le tendenze associative, il Servizio Civile dei volontari internazionali, impegnati gratuitamente nella costruzione di opere pubbliche, le offerte volontarie di lavoro da parte delle popolazioni locali. Anche il tessuto urbano delle grandi città: a Napoli i vecchi edifici rimbiancati danno alla città un decoro nuovo. Nei tradizionali quartieri popolari, «sorgono superbi edifici moderni, di dieci e quattordici piani; e in questa città accanto alle audacie del suo barocco tutto si può osare, tutto in quest’aria nostalgica di buoni traffici, davanti a quel mare, con quella ricchezza, di terre alle spalle, con quell’ingegnosità sprecata dietro agli elementi più imperscrutabili del vivere alla giornata». Nei sottoscala dove continuano a dormire in otto persone e nei vicoli dove sono messi i letti a prendere aria, l’arrivo del nuovo è segnalato da una radio aperta che manda per tutto il quartiere una canzonetta americana. Nel passaggio tra vecchio e nuovo mondo, Alvaro intuiva, anticipando Pasolini (con cui le analogie e le continuità meriterebbero di essere approfondite), non solo il rischio di omologazione e deculturazione, ma il determinarsi di malesseri e chiusure inediti di cui il Sud sconta ancora le conseguenze. Nel 1933 in Quasi una vita scrive: «Gli uomini, coi mezzi moderni, non si accorgerebbero di rimbarbarire. Perché la civiltà va diventando oggi un fatto puramente materiale ed esteriore. Si acquisiscono i risultati della vita moderna, senza seguirne il processo e lo sviluppo come accadeva nella vecchia vita». La nostalgia del mondo dei padri e delle madri non comporta rimpianto, ma si configura piuttosto come critica dell’egoismo, della frammentazione, della massificazione, della perdita del senso della responsabilità, dell’incapacità di dare un significato allo sviluppo, dello smarrimento della perdita del sentimento dell’umano e del sacro. Una critica, però, tesa verso il futuro, all’affermazione di un nuovo umanesimo. Scrive di Alvaro Geno Pampaloni: «Era un pessimista voglioso, un utopista insofferente. […] Sembrava pessimista quasi per timidezza, ed era in realtà votato alla speranza».
Soffermandosi sui fatti di Andria, Alvaro ricorda come nella città, diecimila, sui settantamila abitanti, vivono tra un «quartiere modernissimo» e uno «meno vecchio» della città in piano. Mentre sul declivio, in abitazioni «a terreno di una sola stanza, attaccate l’una all’altra come un baraccamento, e nelle caverne, vive il resto, sessantamila persone, con le capre, gli asini, i maiali». La violenza è nell’aria, anche se non sapete che diecimila di queste persone sono pregiudicati, rei di lesioni, violenza, rapina. «L’odore è di fogna. Il castello lassù è vuoto; tra esso e la grotta immonda non esiste mediazione, non v’è scala sociale intermedia. È qualcosa di peggio che medievale. È paurosamente moderno. Presso il cadavere scheletrico della vecchia società, la nuova società da cinquant’anni a questa parte cresce nella putredine». È il passaggio dal vecchio al nuovo come frattura, un fenomeno «paurosamente moderno», a determinare degrado, disgregazione e nuovi disagi sociali. La struttura dell’Italia meridionale è precapitalista, e il delitto della folla di Andria non è che uno dei tanti dovuti al furore popolare, accaduti quasi ininterrottamente dal Sessanta in poi: «incendi di municipi e di agenzie delle tasse, devastazioni di case ricche e uccisioni di grandi proprietari e di innocenti vittime come le sorelle Porro di Andria, formano la nuova manifestazione dello scontento sociale meridionale dal passaggio di Garibaldi nel Sessanta». Si tratta, al di là dell’azione e delle spiegazioni dei partiti politici, di una nuova versione di sommovimenti ed esplosioni periodiche d’una condizione umana, «che di continuo tenta di risolvere in una volta i problemi che la società locale e la società nazionale non hanno mai affrontato con quell’opera assidua che si chiama convivenza, solidarietà, civiltà». In questa trasformazione senza direzione, anche le catastrofi naturali giocano un ruolo decisivo. Sono memorabili e istruttive le pagine sulla pioggia, le alluvioni, i torrenti (l’Ancinale, il Mèsima, il Calopinace, l’Angitola, il Bonamico, il Melissa) che trascinano tutto sulla riva del mare. «Il torrente in Calabria è un mostro perfido ben più presente del terremoto»; sconvolge campagne, piantagioni, strade, paesi. Dissolve e sgretola le comunità, ma allo stesso tempo permette la nascita di élite senza scrupoli, di classi dirigenti corrotte, la generazione di «fortune imponenti» e di pervasivi sistemi clientelari. Tutto questo accade mentre i giornali locali parlano della «grande dimenticata», rifugiandosi nel mito della terra ricca di vitelli da cui nacque il nome d’Italia; in una Calabria che non esiste più, spazzata via dalla sua geologia e dall’incuria, rintanata in un’idea angusta di classico. Sono riflessioni, queste di Alvaro, ancora attuali dinnanzi a una realtà che, pure profondamente mutata, conserva gli antichi vizi e la mancanza di una classe intellettuale locale capace di analisi vere e di elaborare soluzioni definitive. Anche i fenomeni di criminalità sono considerati non solo come portato di una storia precedente, di una cultura tradizionale, ma come risultato di fenomeni di ascesa sociale e di modernizzazione. Nella scrittura di Alvaro l’«onorata società», la «Fibbia», la «ndrànghita» non ricevono alcuna indulgenza, non le accompagna nessuna concezione romantica o approccio giustificazionista. La «ndrànghita» che Alvaro scopre sin da bambino è un’associazione a delinquere che non ha molto di popolare e di tradizionale. Un’associazione per nulla segreta o dedita agli interessi locali: «Nessuno in paese li considerava gente da evitare, e non tanto per timore, quanto perché formavano ormai uno degli aspetti della classe dirigente». Alvaro coglie che la nuova società fondava già all’origine il suo consenso sulla «confusione di idee che regnava fra noi a proposito di giustizia e d’ingiustizia, di torto e di diritto, di legale e di illegale; per gli abusi veri e presunti di chi in qualche modo deteneva il potere». Gli affiliati «formavano ormai uno degli aspetti della classe dirigente» e «provenivano da gente già potente che aspirava a un prepotere, o da oscuri giovani disperati che balzavano così a una certa considerazione». Alvaro ricorda che, alla prima prova delle elezioni per suffragio universale, i passanti venivano sequestrati e poi portati a votare. L’Onorata Società cresceva vigorosa: nei bassi ranghi rappresentava la rivalsa di una misera condizione; negli alti ranghi, «presumeva di rappresentare un correttivo alle ingiustizie della società, alla distrazione di un Governo troppo lontano, rappresentato da funzionari mandati là in punizione, e perciò non del migliore umore; alle angherie e alle sopraffazioni, o ritenute tali da gente non abituata al libero esercizio dei diritti civili». Alle sopraffazioni precedenti si aggiungevano sopraffazioni nuove.

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Tutta interna alla migliore tradizione meridionalistica, l’analisi di Alvaro non ha mai nulla di rivendicativo e di separatistico, di sterilmente lacrimevole e giustificazionista. Alvaro colloca sempre le culture locali, le regioni, il Sud in una cornice nazionale. I suoi itinerari italiani sono in qualche modo il riconoscimento di una comune patria, nella quale Roma diventa il luogo di contaminazione tra persone del Nord e del Sud, che inventano una particolare identità fatta di combinazioni e di scambi: «Personalmente, sono avverso alle autonomie regionali, per ragioni di unità nazionale, morale, culturale, economica, specie in tempi in cui le patrie si frantumano e cadono in schiavitù come nel nostro tempo». Alvaro rimase sempre e convintamente erede della tradizione risorgimentale. Egli valorizza una storia in cui il Regno di Napoli restò «sempre unito e serbò un sentimento unitario che diede poi buoni frutti nel Risorgimento». Nessuna nostalgia per il passato regime borbonico «che non sentiva il problema meridionale come fondamentale per l’unità e il benessere della nazione intera, bensì come beneficenza a popolazioni per natura povere. È che esse non sono povere, ma soltanto impoverite». C’è un giudizio severo contro i Borboni, la cui restaurazione, a inizio Ottocento, «riportò a galla la vecchia società feudale»; favorì l’ascesa di un ceto sociale che si imponeva a forza di usurpazioni delle terre demaniali e si dimostrò piuttosto tenero con il brigantaggio antigiacobino. In questo quadro, lo scrittore di San Luca, che si rifà sempre alla tradizione risorgimentale anche quando individua nel Sud le ragioni del fallimento del Risorgimento, auspica e spera in una «solidarietà nazionale» che sarebbe nell’interesse sia del Sud che del Nord, e reputa un problema la difficoltà della società meridionale ad attaccarsi alla vita nazionale, a creare forme di convivenza che non siano quelle feudali, timorose di tutto e di tutti, soggette a tutto e a tutti. Per Alvaro, le culture locali, i paesi, i pensatori meridionali sono parte integrante di un contesto a un tempo nazionale, mediterraneo ed europeo (sono illuminanti, a questo proposito, le analogie e il dialogo tra l’Alvaro che racconta la fine della civiltà contadina e il Roth che descrive la fine dell’impero austro-ungarico e della civiltà dello shtetl, della “piccola città” e del microcosmo degli Ostjuden, gli ebrei-orientali). I suoi itinerari italiani sono in qualche modo il riconoscimento di una comune patria e la tradizione migliore, alta, quella di Gioacchino da Fiore, Barlaam, Leonzio Pilato, Telesio, Mattia Preti, Campanella.

[…]

Chiunque si trovi a percorrere il Sud in maniera frettolosa nei luoghi visitati di Alvaro stenterà a trovare traccia del mondo tradizionale e in movimento da lui incontrato. «La Calabria è nel suo momento di mutamento. In pochi anni sono sorti miracolosamente ponti e strade che formavano l’aspirazione di secoli, il mondo nuovo pulsa col suo motore nel più piccolo villaggio. Già qualcuno pensa a un museo di curiosità popolari, che è l’archeologia dei luoghi. Di qui a cinquant’anni, se ai moti esteriori della civiltà risponderanno quelli interiori, la Calabria sarà una regione totalmente cambiata». Per questo motivo Un treno nel Sud è ancora più prezioso e necessario: ci mostra movimenti sottili, radici profonde, processi di lunga durata grazie ai quali, forse, qualcuno riuscirà a riconoscersi in un Sud divenuto irriconoscibile. Non è un caso che Giovanni Russo cominci la sua raccolta di scritti dedicati alla Calabria in maniera evocativa ed emblematica con un ricordo affettuoso di Corrado Alvaro, conosciuto e frequentato a Roma nel 1949, e la concluda, dopo una serie di inchieste e riflessioni su una terra da lui frequentata e amata, con una sorta di invito, dopo decenni di speranze e delusioni, attese e dispersioni, mutamenti profondi e degrado, a «ricominciare da Alvaro». Il peggiore servizio che potremmo rendere a questo libro, allora, è quello di scorgervi un meridione intrappolato in una dimensione senza tempo. Di usarlo per trasformare il Sud nella sua metafisica. Significherebbe imprigionare Alvaro in una concezione astorica e ingenuamente mitica. In questo libro di viaggio Alvaro si presenta, con una sua inconfondibile cifra stilistica, grande scrittore di racconti, autore di note di viaggio, custode di memorie di un mondo sommerso, osservatore attento e puntuale, analista politico, che fa pensare a un grande etnografo, un antropologo capace di riflessioni che restano fondamentali per conoscere un universo scomparso e che nello stesso tempo rivelano una loro attualità. Accade solo ai classici della letteratura.

Vito Teti

cover  Alvaro

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