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Se il chicco di grano caduto in terra non muore rimane solo, se muore produce molto frutto”. Mi piace richiamare questo testo evangelico nel ricordare il sacrificio del brigadiere ANTONINO MARINO, avvenuto il 9 settembre 1990, mentre si trovava a Bovalino superiore con la propria famiglia per la festa patronale. La breve similitudine manifesta l’urgenza, o se vogliamo la necessità della passione e morte, della croce. La morte di Gesù è una semina, nella quale il seme deve essere sotterrato, morire come seme e dare origine a una nuova pianta che moltiplica i semi nella spiga. Così Gesù legge la sua morte e ci rivela che anche per noi, in questo tempo così travagliato, diventa necessario morire, cadere a terra e anche scomparire per dare frutto. È una legge biologica, ma anche il segno di ogni vicenda spirituale: la vera morte è la sterilità di chi non dà, di chi non spende la propria vita, ma vuole conservarla gelosamente. La vera morte è quella di chi approfitta del proprio ruolo di responsabilità, per realizzare i suoi meschini affari ed approfittare della funzione sociale o istituzionale per il proprio tornaconto. La vera morte è quella degli uomini corrotti. E’ la corruzione, che produce ingiustizie, toglie speranza agli onesti e crea sottosviluppo sociale. Al contrario il dare la vita fino a morire, l’assumere sino in fondo le proprie responsabilità è la via della vita abbondante. Chi vuole essere cristiano deve accogliere questa morte, accettare questa caduta, abbracciare ogni propria responsabilità. E allora non sarà solo, ma avrà Gesù accanto, che lo porterà dove Egli è, nel grembo di Dio, nella vita eterna.

Medaglia d’oro al valore civile, il brigadiere MARINO perse la vita barbaramente ucciso, mentre la moglie ed il figlioletto rimasero feriti. Fu la risposta col sangue di chi non ne accettava l’azione di resistenza ad una attività criminale di stampo mafioso, che seminava morte ed imperversava in questo territorio. Il Militare, impegnato principalmente nel contrasto alla ‘ndrangheta, aveva lavorato per anni come Comandante della Stazione Carabinieri di Platì. Profondo conoscitore della criminalità organizzata, aveva svolto varie indagini su traffici illeciti e sui numerosi sequestri di persona che in quegli anni rappresentavano una delle principali attività criminali. Aveva contribuito ad assicurare alla giustizia diversi esponenti della ‘ndrangheta. Un impegno eroico, per costruire la pace sociale in una terra in cui stava era esploso un grave conflitto sociale con le faide in guerra fra loro. Il sacrificio del brigadiere è la massima espressione di una azione incessante che da anni i Carabinieri e tutte le forze dell’ordine portano avanti per reprimere la criminalità e riportare l’ordine e la pace sociale, spesso a rischio della vita in un ambiente difficile. La nostra terra ha ancora grande bisogno dell’azione delle forze dell’ordine come ha altresì bisogno di ogni attività capace di portare sviluppo economico e sociale. Siamo in un’area periferica, ove tanta è la povertà e mancano le minime opportunità di sviluppo. La sua collocazione geograficamente marginale impone collegamenti più dinamici e veloci col resto del paese. Se il sistema viario e i collegamenti ferroviari continuano ad essere sempre più precari (tutti conoscono le condizioni della SS 106, specie in questo tratto, e la tratta ferroviaria ad un solo binario), quest’area diventa sempre più marginale ed i problemi sociali e di ordine pubblico aumenteranno, anziché diminuire. Così facendo il sacrificio del brigadiere Marino rimane isolato. Lo sviluppo sociale ed economico di questo territorio è la via obbligata da percorrere se si vuole incidere in profondità nel tessuto di questo territorio. Questo lo sanno tutti. Forse manca la volontà politica: lo si evince ogni qualvolta gli interventi infrastrutturali non tengono conto di questa area. E le risorse finanziarie previste vengono altrove dirottate. Mentre altrove si parla di alta velocità, qui si pensa a rallentarla sempre più.

Volgendo uno sguardo alla pagina del vangelo vi troviamo un invito alla coerenza e a non esprimere facili giudizi. Desidero farne tesoro, come dobbiamo fare da discepoli di Gesù. Colgo nel vangelo un grande insegnamento di vita, un’esortazione a guardarsi dentro, a camminare sulla retta vita dell’impegno concreto e della rettitudine morale.

Mi piace a riguardo richiamare un racconto dei Padri del deserto.

Un giorno, in un centro monastico del deserto egiziano, a Scete, i monaci decisero di radunarsi per esaminare il caso di un fratello che aveva peccato. Esasperati dalle sue ripetute disobbedienze, erano fermamente decisi ad agire con estrema severità. Al momento di iniziare la riunione mancava però abba Mosè, un monaco autorevole ma dal passato non troppo devoto; era stato a capo di una banda di ladri e si era fatto conoscere in tutta la regione per la sua brutalità. Accolto nel deserto da un santo monaco mite e misericordioso, aveva imparato a praticare a propria volta la mitezza e la misericordia. Anche abba Mosè, dunque, era stato convocato per emettere il proprio giudizio. Si presentò in ritardo e in modo alquanto strano. Era ricurvo sotto il peso di una pesante cesta colma di sabbia; la cesta era forata e lasciava scorrere la sabbia dietro le sue spalle. Fece un giro, passando davanti ai monaci disposti in circolo, e dietro di lui la sabbia scorreva. Dinanzi al suo strano comportamento, i monaci restarono ammutoliti; poi, qualcuno osò chiedere: “Che è mai questo, abba?”. Ed egli rispose: “Sono i miei peccati che scorrono via dietro di me senza che io li veda e oggi sono venuto a giudicare i peccati altrui”. All’udire queste parole, se ne partirono dal luogo di riunione e perdonarono al fratello che aveva peccato. Questo episodio, tratto dai detti dei padri del deserto, mi sembra un ottimo commento alle parole di Gesù. “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?” (Lc 7,41). Siamo molto abili nel cogliere “ciò che non va” nell’altro, mentre lasciamo scorrere dietro di noi senza vederli i nostri peccati. Pretendiamo di erigerci a maestri degli altri e di guidarli e invece siamo ciechi, incapaci di leggere dentro al nostro cuore. Di fronte al male che vediamo nell’altro dobbiamo rispondere anzitutto con un esame sincero del nostro pensare e del nostro agire; l’altro ci fa da specchio, ci fa comprendere ciò che ci abita. Poi, forse, dopo aver cercato di riconoscere e di togliere la trave che ottenebra il nostro occhio, possiamo cercare con amore fraterno, e non più con sguardo cattivo, di aiutare l’altro a togliere la pagliuzza che è nel suo occhio, ma sempre e comunque il Signore ci chiede di perdonare, di offrire quell’iper-dono (dal greco: hypér), super, immenso, gratuito.

Tutto questo possiamo leggerlo all’interno del tema-guida del Giubileo della Misericordia: “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,36). Il Signore continuamente ci usa misericordia, ci perdona e ci aiuta a prendere coscienza del nostro male per potercene liberare. E’ un Padre che fa giustizia con la sua misericordia e sogna che ogni suo figlio ritorni, abbandonando dietro le sue spalle il male commesso.

(Bovalino 9 sett 2016)

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