Gio. Mar 28th, 2024

La Corte d’appello conferma le pene per i vertici delle ‘ndrine più potenti dello Stretto. Inflitti 27 anni di carcere a Giuseppe De Stefano, 20 a Pasquale Condello e Giovanni Tegano

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Una conferma netta, rotonda dell’impianto accusatorio, delle responsabilità ascritte agli imputati, in quasi tutti i casi anche delle pene. Fatta eccezione per un’assoluzione e un non doversi procedere per intervenuta prescrizione, il processo Meta, scaturito dall’inchiesta coordinata dal pm Lombardo, passa indenne lo scoglio del secondo grado.
Ed è una sentenza granitica e che lascia poco spazio all’interpretazione quella emessa oggi, dopo circa tre giorni di camera di consiglio, dalla Corte d’appello di Reggio Calabria al termine del secondo grado del procedimento Meta, l’inchiesta che ha fotografato le nuove dinamiche dei clan reggini e ha affermato una concezione rivoluzionaria della struttura delle ‘ndrine. Dopo la conferma arrivata dal primo grado, anche in appello regge l’impianto accusatorio dell’inchiesta che ha permesso di individuare il “direttorio”, il complesso organismo di connessione fra la ‘ndrangheta visibile e la ‘ndrangheta invisibile, e il suo capo, Giuseppe De Stefano.

LE CONDANNE Per il capocrimine, che in silenzio ha assistito collegato in videoconferenza da Tolmezzo alla lettura del dispositivo, è arrivata una conferma della pena a 27 anni rimediata in primo grado. Si sono invece rifiutati di assistere, pur in videocollegamento, alla lettura del dispositivo Giovanni Tegano, con una regolare rinuncia, e il superboss Pasquale Condello, che questa mattina si è rifiutato di uscire dalla cella. Per entrambi è arrivata una conferma della condanna a 20 anni di carcere, mentre rimedia un anno in più Pasquale Libri, condannato a 21 anni di reclusione in luogo dei 20 del primo grado.
Per Domenico Condello “Gingomma”, nipote del superboss, la pena passa da 23 a 20 anni di carcere, mentre è di 21 anni, in luogo dei 23 in precedenza rimediati, quella inflitta a Pasquale Bertuca. Cade invece uno dei capi d’accusa contestato a Nino Imerti, che passa da 21 a 14 anni di reclusione, mentre è solo di pochi mesi la riduzione di pena incassata da Giovanni Rugolino, che passa da 18 anni e 4 mesi a 18 anni di carcere. Come chiesto dall’accusa, cadono le aggravanti contestate a Cosimo Alvaro, che passa da 17 anni 9 mesi e 10 giorni a 8 anni di carcere. Escluso uno dei capi d’accusa contestatigli, per Domenico Passalacqua la pena passa da 16 a 11 anni di carcere, mentre è di 8 anni la pena inflitta a Francesco Creazzo, in precedenza punito con 16 anni di reclusione. Aumenta invece di un anno la pena inflitta all’imprenditore Natale Buda, che passa da 13 a 14 anni di carcere, mentre è di 4 anni e 3 mesi la pena per l’imprenditore Nino Crisalli, l’ex proprietario della nota discoteca “Limoneto”, in precedenza condannato a 7 anni, perché, pur di riscattare il proprio patrimonio all’asta fallimentare, durante la quale stava per essere liquidato, ha deciso di chiedere “garanzie” agli uomini dei clan, legittimando «l’autorità dei vertici territoriali della ‘ndrangheta».
Una lieve riduzione di pena arriva anche per l’ex sindaco di San Procopio, Rocco Palermo, condannato a 3 anni e 4 mesi in luogo dei 4 anni e 6 mesi rimediati in precedenza, e per  Antonio Giustra, in precedenza condannato a 3 anni e 6 mesi, oggi a 2 anni e 3 mesi. Infine, si abbatte la mannaia della prescrizione sui reati contestati all’imprenditore Carmelo Barbieri, in precedenza condannato a 3 anni. Assolto Stefano Vitale.

LA ‘NDRANGHETA NUOVA Al netto delle lievi riduzioni di pena, la sentenza emessa dalla Corte presieduta da Antonio Giacobello, è una conferma piena di un’inchiesta fondamentale nella storia del contrasto alla ‘ndrangheta. Come più volte spiegato dai pm, l’individuazione del direttorio è il passo avanti necessario per “salire di livello” e passare all’attacco della cosiddetta “struttura invisibile”, il cuore strategico e programmatico della ‘ndrangheta, oggi al centro di Gotha, il maxi-procedimento che di Meta è la naturale prosecuzione. Un salto di qualità impossibile senza l’individuazione del direttorio. È proprio questo organismo – ha affermato anche oggi la Corte d’appello, confermando in pieno l’impianto accusatorio di Meta – ad assicurare il simbiotico rapporto fra le due anime della ‘ndrangheta, quella visibile e quella invisibile, tanto diverse, quanto ugualmente funzionali all’efficacia delle strategie criminali dell’intera organizzazione.

L’INCHIESTA Un meccanismo emerso in modo cristallino nel corso del processo di primo e secondo grado, scaturito da «un’inchiesta – ha affermato nel corso della propria requisitoria il sostituto procuratore della Dda Giuseppe Lombardo, che ha coordinato le indagini, ha sostenuto l’accusa in primo grado e oggi è in appello – che ha spiegato come la ‘ndrangheta si evolva, e come sia riuscita a evolversi, capace di cambiare le regole adeguandosi ai tempi in cui opera. Esibendo sempre una forza micidiale». Dopo una guerra sanguinosa che ha lasciato sul terreno oltre 700 morti ammazzati, le ‘ndrine si sono date nuova forma ed «è nata la compattezza di oggi con le cosche che ragionano all’unisono e che operano una accanto all’altra», ha sottolineato il pm. Un sistema garantito dal direttorio di clan che governa la ‘ndrangheta visibile, grazie a «un processo evolutivo di accentramento del potere decisionale nelle mani di pochi grandi capi – spiegava il Collegio in sede di motivazione della sentenza di primo grado – così da poter determinare “a monte” le decisioni vincolanti, irradiandole a pioggia verso ì livelli inferiori di siffatta struttura gerarchica, da un lato, e sì da poter relazionarsi con ambienti più elevati di tipo politico istituzionale, dall’altro lato». Una superassociazione, che in Giuseppe De Stefano – ha messo in chiaro il pm Lombardo – «ha il suo amministratore delegato che opera da indiscusso leader, perché gode della fiducia piena degli altri soci di riferimento». Soci che la Dda ha iniziato a portare a processo, ma la caccia agli uomini del “gotha” della ‘ndrangheta e ai loro “invisibili”– avvertono i pm della Dda coordinata da Federico Cafiero de Raho – non è ancora finita.

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