Gio. Apr 18th, 2024

Il filo nero delle rivendicazioni della misteriosa sigla incastra l’omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo in un mosaico complesso ed eversivo. Che dalla Calabria porta alle stragi continentali

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«Prima non mi rendevo conto, sembravano cose così lontane. Adesso invece, udienza dopo udienza, tutto sembra più chiaro. E tutto si incastra». Puntualmente, Ivana Fava questa mattina si è presentata all’udienza del processo che vede alla sbarra i boss Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, considerati mandanti dell’omicidio del padre, il brigadiere Antonio Fava, ucciso insieme al collega Vincenzo Garofalo il 18 gennaio del 1994. Ed ancora una volta, al termine delle attività è quasi stupita. Perché giorno dopo giorno, le è sempre più chiaro che quell’agguato in cui il padre e il collega hanno perso la vita non è stato una “cosa da balordi”, ma la tessere di un piano eversivo scritto a più mani.
A confermarlo – ha spiegato oggi in aula il dirigente dell’antiterrorismo Eugenio Spina, interrogato dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo – è la firma usata per rivendicare quel delitto, Falange Armata.

LE TRE RIVENDICAZIONI CALABRESI Poco dopo l’omicidio dei due militari, sono stati recapitati tre messaggi di rivendicazione, curiosamente ignorati dalle indagini sviluppate dopo il delitto. Il 20 gennaio del ’94, un uomo dal forte accento calabrese chiama la stazione dei carabinieri di Scilla. «Se continuate così – dice – ne uccidiamo altri quattro, vedete che non stiamo scherzando».
Il 1 febbraio invece, è una donna che con tipica inflessione calabrese chiama la stazione dei carabinieri del rione Modena di Reggio Calabria solo per dire: «Maledetti stiamo facendo una strage, maledetti» e poi buttare giù.
L’ultima rivendicazione arriva per iscritto. E probabilmente – sottolinea Spina – «è quella che riteniamo più importante perché per la prima volta appare la firma “Falange armata”. Si tratta di una missiva anonima, con all’interno un comunicato di rivendicazione, scritto a normografo, che viene recapitata alla stazione dei carabinieri di Polistena». Il testo è breve, il messaggio inequivocabile. «Quanto ci siamo divertiti per la morte dei due carabinieri bastardi uccisi sull’autostrada. È l’inizio di una lunga serie e mi auguro che a Polistena facciate tutti la stessa fine». La firma – Falange armata – diventa una traccia fondamentale per gli investigatori.

LA SCIA DELLA FALANGE I tre messaggi calabresi sono solo tre grani di un rosario di più di 1.700 rivendicazioni, arrivate per telefono o per iscritto dall’11 aprile del ’90 al 2000. La prima è stata fatta per firmare l’omicidio di Umberto Mormile, l’educatore carcerario – ha stabilito una sentenza definitiva – ucciso per aver scoperto i rapporti fra uomini dell’intelligence e il boss Antonio Papalia. Una verità scoperta anche grazie alla collaborazione degli esecutori materiali di quel delitto, dopo anni di fango, menzogne e misteri sul giovane ucciso. Misteri che le criptiche rivendicazioni della Falange non hanno fatto che alimentare. L’omicidio Mormile – spiega Spina – diventa la costante di una serie di telefonate o missive di rivendicazione o minaccia, che a partire dall’aprile del ’90 l’organizzazione fa pervenire con costanza agli uffici dell’Ansa, in carcere, alla polizia o ai carabinieri.

IL PROGRAMMA Inizialmente si presenta come Falange Armata Carceraria, poi semplicemente com’NdranghetaFalange Armatae Falange Armata. Ma si tratta sempre della medesima organizzazione, come testimonia il messaggio di rivendicazione arrivato nel novembre del ’90 per firmare l’omicidio di due professionisti di Catania.
È un messaggio fondamentale. Primo, perché per la prima volta le due sigle vengono messe in connessione dai misteriosi autori, secondo perché si fa riferimento un «programma politico e militare» dell’organizzazione.
Secondo i misteriosi autori delle telefonate, sarebbe stato lasciato sotto forma di bobina alla stazione di Bologna qualche giorno prima, con tanto di comunicazione all’Ansa sulla sua ubicazione. E qualche anticipazione sul contenuto. Su quel nastro – riferisce Spina – ci sarebbero state «informazioni interessanti sulla struttura di Gladio, sulla strage di Bologna, sul delitto Mattarella». Quel nastro – sempre che sia esistito – non è mai stato trovato. La falange però ha continuato le sue attività. Anzi le ha aumentate.

ESCALATION «A partire dal ’90. questa sigla – dice il dirigente dell’antiterrorismo, rispondendo alle domande del procuratore – si sviluppa ulteriormente negli anni successivi, fino a raggiungere il suo apice nel ’93, quando sono stati attribuiti alla Falange Armata ben 437 episodi di rivendicazione. Nel ’94 sono 291 episodi. Si tratta per lo più di telefonate, ma non mancano comunicati scritti». Non si tratta di un dato neutro. Quelli sono gli anni delle stragi continentali, usate – ipotizza oggi l’inchiesta ‘Ndrangheta stragista – per un piano eversivo da sviluppare in più fasi, con l’obiettivo di imporre un governo amico, al posto dei vecchi referenti politici, istituzionali e forse internazionali, travolti dall’ondata di Tangentopoli e dal crollo del muro di Berlino. Una partita che tra il ’93 e il ’94 – emerge dalle carte dell’inchiesta – è stata giocata su più tavoli, con le bombe come con i voti.
Un’ipotesi confermata anche dal numero di rivendicazioni della Falange, che dal ’95 in poi – spiega Spina – «fa registrare una progressiva diminuzione, fino al 2000, l’ultimo anno in cui siano arrivate rivendicazioni con questa sigla».
Negli anni «la Falange ha rivendicato sia delitti mai avvenuti, sia delitti consumati, ma le rivendicazioni sono avvenute sempre dopo che era stata data notizia del delitto stesso. Moltissime sono state le minacce nei confronti di personale del settore carcerario, di uomini delle forze dell’ordine, magistrati, giornalisti, personalità politiche o alte cariche dello Stato». In totale, la Falange ha all’attivo oltre un decennio di attività. Ma – al momento – non è stato sufficiente per scoprire chi dietro quella firma si nasconda.

CHI SI NASCONDE DIETRO LA FALANGE? Più di un tentativo – emerge dalla deposizione – è stato fatto. A Roma è stata aperta un’indagine, poi archiviata. Un altro fascicolo ha portato anche all’individuazione di un uomo, l’educatore carcerario di Messina, Carmelo Scalone, condannato in primo grado e assolto in appello dall’accusa di aver inoltrato comunicati a firma Falange Armata ad alcune agenzie di stampa. A livello investigativo e di intelligence invece si è riusciti a fare qualche passo in più. Sebbene sia rimasta – afferma Spina – «una galassia di difficile comprensione», già nel ’93 la Falange veniva indicata pubblicamente come «scheggia impazzita di settori dello Stato». Una definizione più volte usata in pubblico e sulla stampa dal senatore Gualtieri, all’epoca presidente della commissione stragi, ma che coincide con le analisi che sulla Falange si stavano sviluppando in ambienti di intelligence.

STRUTTURA CREATA IN LABORATORIO Secondo una relazione del Cesis del Marzo del ’83, «è da prendere in considerazione la tesi secondo cui si tratta di una sigla usata per coprire una struttura creata in laboratorio con specifici intenti di inserimento e di manovra in ambienti di pubblico interesse». All’epoca, a dirigere il Cesis c’era l’ambasciatore Fulci. Un personaggio ritenuto scomodo da molti, tanto da scoprirsi monitorato, ascoltato e pedinato. Probabilmente proprio dagli uomini della Falange. Per questo, Fulci – in gran segreto – si è messo al lavoro per spiare e individuare chi lo spiava. «Ebbe a segnalare per iscritto – riassume in aula il dirigente dell’antiterrorismo – 16 nominativi che a suo dire facevano parte di Gladio e potevano essere parte della Falange Armata. Secondo Fulci i vertici del Sismi avrebbero fatto parte o sarebbero stati a conoscenza dell’organizzazione Falange Armata, coincidendo le località di provenienza delle rivendicazioni di Falange armata con i vertici del Sismi».

COINCIDENZE? Punti di contatto che sembrano andare oltre le banali coincidenze, al pari delle telefonate che tra il ’93 e il ’94 – e in particolare nel periodo delle stragi continentali- sono state registrate fra i soggetti finiti al centro del fascicolo fiorentino su quelle bombe e celle calabresi. In quegli anni – spiega il dirigente dell’antiterrorismo Antonio Petrillo – 1.197 utenze hanno avuto contatti con soggetti quanto meno presenti in Calabria.
Ma contatti con celle calabresi sono stati registrati da parte di esponenti di spicco dei clan che per le bombe di via dei Georgofili sono stati condannati, come Leoluca Bagarella, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Filippo Graviano, Giuseppe Barranca, Giovanni Brusca, Cristofaro Cannella, Giuseppe Ferro, Antonino Mangano, Matteo Messina Denaro, Vittorio Tutino, Giuseppe Graviano, Giuseppe Monticciolo, Giovanni Benigno, Salvatore Grigoli, Antonino Messana, Alfredo Bizzoni, Giorgio Pizzo. Almeno otto delle utenze a riferibili ad alcuni di loro hanno avuto contatti diretti con 17 utenze – 7 cellulari e 10 fissi – all’epoca in Calabria. Ma sul dettaglio toccherà ad altri investigatori spiegare ed approfondire. Nel frattempo però, la composita squadra eversiva che negli anni Novanta ha firmato le stragi continentali (e non solo) comincia a prendere forma.

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