Ven. Apr 19th, 2024

I giudici della Corte d’Appello di Bologna sottolineano i legami tra imprenditori, politici e i clan di ‘ndrangheta. L’autonomia della cosca bolognese dalla “casa madre” del boss Grande Aracri

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Al Nord esiste una sorta di “borghesia mafiosa”. È la conclusione a cui arrivano i giudici della Corte di Appello di Bologna, nella sentenza del processo di ‘ndrangheta “Aemilia”, che il 12 settembre ha in gran parte confermato la decisione del gup per 60 imputati. Tra le posizioni modificate rispetto al primo grado c’è quella dell’ex consigliere comunale di Forza Italia a Reggio Emilia, Giuseppe Pagliani, prima assolto, poi condannato a quattro anni per concorso esterno. Nell’atto si legge infatti che l’organizzazione criminale calabrese radicata in Emilia «si muove in modo diverso rispetto alle regole tradizionali, senza necessità di ricorrere, almeno apparentemente, a riti e formule di affiliazione» e invece per agire «necessita del supporto tecnico e dell’appoggio operativo di commercialisti, fiscalisti, uomini delle forze dell’ordine, giornalisti e rappresentanti della politica locale». E si fa riferimento, infatti, a una «“borghesia mafiosa” esistente al nord, composta da imprenditori, liberi professionisti e politici, che fa affari con le cosche, ricercandone addirittura il contatto in ragione delle ampie opportunità offerte dall’appoggio dell’organizzazione»; il pagamento del “fiore”, cioè della percentuale alla “casa madre”, la “mazzetta” o l’estorsione «sono il mezzo con il quale l’imprenditore e il politico ottengono la protezione e il vantaggio che la cosca può offrire».
Secondo la sentenza la ‘ndrangheta emiliana è una criminalità organizzata che, nel corso degli anni, «pur manifestando costantemente la propria presenza in Emilia con numerosissimi episodi intimidatori e fatti di sangue, mostrava la propria potenza organizzativa con una peculiare capacità reattiva e sapeva al contempo operare sempre più a 360 gradi, con una sorprendente abilità mimetica per meglio infiltrarsi nel tessuto economico imprenditoriale sano della regione».
Il gruppo capeggiato da Nicolino Sarcone, condannato a 15 anni, pur mantenendo un legame con la “casa madre” calabrese, e in particolare con il boss Nicolino Grande Aracri, aveva «piena autonomia decisionale sugli affari da concludere». Grande Aracri era infatti sempre informato degli affari trattati al nord o anche all’estero, oltre che uno dei principali se non l’unico finanziatore del business e a lui andava una percentuale dei profitti. Non era tuttavia da lui, osservano i giudici «che dipendeva l’ideazione o la decisione di quali imprese assoggettare in Emilia né di quali occasioni economiche sfruttare o creare».

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