Ven. Mar 29th, 2024

“Tutta una vita”, l’ultima opera dello scrittore scomparso nel 2014, fu scritto all’inizio degli anni ’90 ma non fu mai dato alle stampe. L’antropologo Vito Teti lo ha letto: «C’è il grande narratore “sociale” ma anche quello capace di costruire tipi umani, di cui indaga profondità e contraddizioni» 

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Poco meno di trecento pagine fitte di parole dattiloscritte e di correzioni apportate a mano, con la penna. In quei 297 fogli in formato A3 c’è una vita, “Tutta una vita”, l’ultimo romanzo scritto da Saverio Strati, un’opera quasi compiuta ma mai pubblicata. Sul dattiloscritto donato da Simone Strati (figlio dello scrittore nato Sant’Agata del Bianco e scomparso il 9 aprile del 2014) alla nipote, Palma Comandè, c’è una data: 28 febbraio 1991. Dunque Strati lavorò a “Tutta una vita” dopo l’uscita de “L’uomo in fondo al pozzo” (1989), ma il suo editore dell’epoca non pubblicò mai quell’ultimo frutto amaro della sua lunga e prolifica vita letteraria. Mondadori in quegli anni stava cambiando assetto societario e passava in mano alla famiglia Berlusconi. E Strati, uomo di una sinistra che forse non c’è più, uno che aveva lavorato come muratore ad Africo nel dopoguerra, e che da scrittore aveva raccontato senza finti pietismi né aristocratici compiacimenti i braccianti e gli emigranti del Sud, forse non era più di moda nei primi anni ’90, forse non rispondeva allo spirito del tempo. Se sia stato davvero questo il motivo della mancata pubblicazione lo abbiamo chiesto a Vito Teti, antropologo e scrittore, che è tra i pochi che hanno avuto la fortuna di avere in mano quel dattiloscritto e che martedì sera, a Bianco, parteciperà a un incontro dal titolo “Paesaggi e percorsi dell’anima nell’opera di Saverio Strati” (qui la locandina).
«Non sapremo mai se fu per questo che Mondadori non pubblicò “Tutta una vita”. Certo Saverio Strati, come mi raccontava nei nostri viaggi in Calabria, a Rende e a Cassano, a Vibo e a Serra, non aveva vissuto bene la cosa. Era deluso, amareggiato, stupito. Credo che cominciò per lui un non facile periodo di depressione e di chiusura, che lo portò a non pubblicare quasi più e a fargli maturare l’idea di un “diario” di una vita, dove scriveva, ogni giorno, riflessioni, meditazioni, ricordi, cronache, di cui ogni tanto mi parlava e che, alla fine, costituiscono un corpus di quasi duemila pagine inedite».

 

Pare di capire che Strati, che non amava né le polemiche “di provincia” né una certa accademia, abbia riversato in questo “diario” molto di se stesso, del suo punto di vista di scrittore-emigrante negli anni rampanti della televisione commerciale.
«A queste pagine, che speriamo vengano pubblicate presto (ma dopo un accurato lavoro filologico e critico-letterario), ha affidato le sue amarezze e anche la sua visione del mondo, la distanza dall’angusto e chiuso mondo di origine, che, però, amava profondamente, e anche la critica di una modernità che nasceva come consumismo, perdita di valori, anche se Strati coglieva tutti gli aspetti positivi del vivere in città, dell’essere in un mondo che offriva molte nuove possibilità».

Quello di “Tutta una vita” è lo Strati che conosciamo, dunque? Quello che nel confronto tra la vita delle città del Nord e l’immobilità del Sud non esaltava il “nuovo” mondo e non mitizzava il vecchio, le origini da cui non poteva affrancarsi e a cui non poteva tornare?
«Chi ha conosciuto e amato lo Strati definito, con espressione efficace dall’indimenticabile Pasquino Crupi, un autore di opere a sfondo sociale, il grande narratore dei paesi interni della Calabria e della loro discesa lungo le coste, le storie di emigrati, “selvaggi” e “lazzaroni”, che restano in sospeso tra mondo di origine e mondo dove si sono trasferiti, ritroverà certo la grande capacità dello scrittore di disegnare contesti ambientali e sociali, ma, troverà, soprattutto, lo Strati della svolta compiuta con “L’uomo in fondo al pozzo”, quello capace di costruire tipi umani, di cui indaga la profondità e le contraddizioni del carattere, la difficoltà di essere nel mondo in un periodo di grande transizione».

E quali sono questi personaggi, l’ambientazione del romanzo, il contesto storico in cui Strati ha costruito questa sua ultima narrazione?
«Nella pagina con dedica al figlio Simone, Strati riporta una frase del suo maestro Giacomo Debenedetti (seguito nei corsi a Messina): “Il romanziere non deve guardare dal di fuori il suo personaggio, ma lo deve costruire inventandolo nel momento in cui lo intuisce”. Non è possibile dire molto di un romanzo inedito che ancora non è stato pubblicato, ma mi limito a segnalare che esso è ambientato tra una cittadina di mare della Calabria Ionica (Bianco?) e Milano (con molte situazioni che si svolgono a Messina, Roma, Firenze). Pino, il protagonista del romanzo, è figlio di un piccolo imprenditore che assieme al fratello ha ereditato una piccola impresa dal padre muratore. Da molti indizi si deduce che siamo nel periodo del boom economico, in un’Italia segnata da contrasti tra Democrazia cristiana e Partito comunista, alla vigilia del ‘68 (e anche dopo). Sullo sfondo c’è la progressiva scalata sociale ed economica della famiglia Condello, che costruisce – oleando la macchina della burocrazia, della prefettura, delle istituzioni locali, degli uomini politici – un’impresa di riferimento soprattutto per le amministrazioni locali. Il destino dell’impresa è affidato a Lino, il cugino di Pino, figlio del fratello del padre, che studia architettura a Milano e allo stesso Pino che, persa la madre quando era piccolo, con due sorelle e un fratello, dopo un periodo di studio a Messina si trasferisce anche lui a Milano per studiare ingegneria».

Insomma lo «sfondo sociale» di cui parlava Crupi c’è tutto anche qui. E la figura del protagonista sembra racchiudere in sé molti mondi, e soprattutto molti conflitti interni ed esterni a questi mondi.
«Pino è una figura complessa, inquieta, che si interroga sempre sul senso della vita e del mondo. Cerca nelle donne delle figure complici a cui raccontare i suoi tormenti, la sua passione per l’arte e l’architettura, per la filosofia e la matematica. Le sue storie di amore (spesso soltanto “inventate”, sognate, o compiute quando Pino ha conferma di essere amato) sono sofferte, belle, intense. Tra fedeltà al mondo di origine, affetto per il padre e il fratello e le sorelle, amicizia per lo zio e il cugino Lino, un quasi fratello, visto che la zia lo aveva cresciuto come un figlio, dopo la morte della madre e l’amore per il sapere, la città con le biblioteche e monumenti, le chiese e le opere d’arte, Pino combatte, non senza lacerazione, una lotta per fuggire al suo destino di ricco ingegnere di paese (in società con il cugino architetto) e il difficoltoso (e nello stesso tempo facile, vista la sua grande genialità e fantasia) approdo all’architettura, che vive nei suoi legami con musica e poesia, fisica e cosmologia, e che, in qualche modo, gli permette di dare risposte alla sue assillanti domande sul senso della vita, sulla morte, sul tempo, sul cosmo».

Le donne che ruolo hanno nel racconto e nella “guerra” esistenziale che affronta il personaggio centrale del romanzo?
«Tra un’avventura e l’altra, un innamoramento e l’altro (sorprende uno Strati capace di creare situazioni cariche di erotismo ricorrendo a brevi e felici descrizioni), Pino, “tradite” le intenzioni del padre, “fuggito” da un paese stretto, diventato un architetto stimato e dotato di grande fantasia (non esita a realizzare senza “firmare” i progetti delle opere che vengono affidati in paese al cugino), sposa una bella e intelligente donna, moderna (di famiglia comunista) e appartenente alla grande borghesia milanese. Con la morte improvvisa della moglie, che era incinta, comincia un periodo buio e complicato, fatto di rapporti difficili con donne intelligenti, che ama, ma non vuole sposare, o che lo amano e costruiscono storie con altri».

Non aggiungiamo altro della trama, ma Strati sembra aver costruito un intreccio narrativo attraverso cui lascia emergere una realtà sociale – o forse più contesti, antitetici ma legati tra loro – a cui non fa sconti.
«Aggiungo solo che troviamo uno Strati capace di raccontare le città (soprattutto Milano) con le loro bellezze e le loro contraddizioni, restituendo con sguardo realistico paesaggi, ambienti, tipi umani e discostandosi così da quell’immagine di scrittore capace di raccontare soltanto il mondo di origine. Del mondo di provenienza, che in fondo non tradisce e a cui resta legato, il protagonista del romanzo svela le finzioni, le ipocrisie, i pettegolezzi, il pesante controllo sociale e coglie, senza offrire molti dettagli, una certa mentalità familistica contigua a una mafia che si va espandendo e affermando, dopo essere scesa dalle montagne, con i sequestri e con i legami con politici corrotti di tutti i partiti (di governo e di opposizione)».

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