Ven. Apr 19th, 2024

Cinquantacinque anni, medico e scrittore, Vincenzo Carrozza oggi è uno dei chirurghi della missione Onu in Mali, dopo una lunga permanenza in forza alla Kfor, la missione Nato in Kosovo. Originario di Locri, figlio di Pepè Carrozza, “uomo di rispetto” considerato vicino ai clan, 30 anni fa ha deciso di tagliare definitivamente i ponti con quell’ambiente e ha scelto la “missione” di medico. Ha dato alle stampe diversi libri fra cui ‘A famigghia e “Polvere di stelle”, uscito per i tipi di Bookabook. Questa è una sua riflessione sul Kosovo.

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Il Kosovo è una idea. È un punto di frizione tra due grandi faglie che che si chiamano Occidente e Oriente. Un punto in cui l’odio rimane sopito, in perenne equilibrio tra culture che vorrebbero farsi intendere differenti, ma che sono la stessa identica cosa: insensibili macchine di guerra e morte. Il Kosovo è una ferrovia abbandonata dove non corrono più treni: due linee d’acciaio parallele attraversano il cuore della capitale per non portare da nessuna parte. È un fazzoletto di terra, questo, piantunato di palazzi che crescono a metà, con i loro pilastri nudi lanciati verso un cielo azzurro pallido e un futuro incerto. È un vento che spira dolce, in questa fine estate, carico del nero fumo della centrale a carbone che erutta, senza posa, le sue mortifere particelle. Uno zibaldone di plastica che riempie asfittici spazi ai lati delle carreggiate, e ogni angolo dei pochi marciapiedi che attraversano città e villaggi.
Il prezzo pagato per assistere a questo spettacolo è stato, ancora una volta, troppo caro. Migliaia di donne, bambini, uomini, dormono sulle colline dei villaggi, sulle colline di Pristina, in cimiteri, il piu’ delle volte, improvvisati. Dormono musulmani, ebrei, cristiani, nei boschi, sotto macerate foglie di castagni e primule rosa di una bellezza sfavillante. Dormono nei villaggi accanto a mura annerite dai sistematici incendi delle bombe al fosforo, frammenti di quelle che furono case vive, che parlavano di progetti e futuro. Migliaia di esseri umani, albanesi spesso seppelliti con abiti serbi e serbi, spesso seppelliti con abiti albanesi, dormono il sonno perenne sulle rive dei grandi fiumi che scorrono oltre i confini fissati dall’uomo, che scorrono, lenti, oltre la violenza voluta dagli uomini.
Il Kosovo, in guerra perenne. Liberato da Giorgio Castriota Scanderberg il 10 ottobre del 1445, quando sconfisse gli ottomani nella piana dei Merli, viene perso alla sua morte e dominato per cinquecento anni dai Turchi. Anche gli italiani dicono la loro, nella seconda guerra mondiale, e lo annettono all’Albania. Fa poi parte delle Repubblica Jogoslava di Tito, infine diviene parte della repubblica di Serbia che prova a mantenerlo legato a se scatenando una guerra etnica, senza precedenti, nel 1999. Il Kosovo, poco meno di due milioni di abitanti, ha un’anima indomita e tormentata da sembrare più un essere umano che un mucchio di terra circondata da Macedonia, Serbia, Albania, Montenegro.
Un territorio abitato da agricoltori e operai da sempre poverissimo, il più povero di Jugoslavia, tanto da intenerire Tito; il piu’ povero di Serbia, cosa che non ha intenerito Milosevic, l’ex primo ministro serbo condannato dal tribunale internazionale dell’Aja per crimini di guerra. Oggi, il Kosovo, lo si puo’ trovare al seguente indirizzo: Camp Film City, 10000 Pristina, l’indirizzo del quartiere generale della forza Nato di interposizione e pace.
Il segno tangibile dell’interesse della comunità internazionale per questo fazzoletto di terra tormentato. La forza militare delle trentadue nazioni presenti a Camp Film City è il morbido cuscinetto regalato dal Patto Atlantico, alla popolazione locale, necessario ad ammorbidire le frizioni tra oriente e occidente, i due grandi vasi di ferro, culturalmente distanti, ma fisicamente uguali e vicini, altrimenti destinati a frantumare, ancora una volta, il fragile vaso di terracotta che ha nome Kosovo. Qui l’odio razziale non passa attraverso il colore della pelle, gli unici esseri, uomini e donne, di colore che circolano sono i marines americani e militari della varie forze speciali, che è meglio non infastidire. Qui l’intolleranza passa dalle chiese ortodosse e dalle moschee, passa dagli occhi di Gesù Cristo e di Maria sua madre, rappresentati in bellissime icone dorate, e giunge ai sempre più alti minareti delle moschee, e viceversa.
L’odio è un sentire distratto, una insofferenza, a volte impercepibile, verso il canto del muezzim che ti sveglia alle sei del mattino, perché è ora della preghiera. È un fastidio sottile che ti penetra le mente dopo aver guardato donne mussulmane in chador, o niquab, sedute a mangiare la pizza o l’hamburgher come fossero occidentali. È il tremolio, indefinito, che s’impadronisce del tuo cuore quando senti suonare a stormo le campane delle chiese dei monasteri ortodossi per la nascita e la morte del Redentore. È il rossore che ti colora il viso quando vedi le donne occidentali in minigonna e abiti aderenti. Qui, a Camp Film City, i militari turchi sono nell’angolo occidentale del campo, proprio dopo Instabul street dove la bandiera, dalla mezzaluna e stella Bianca su campo rosso, sventola al vento, lo stesso che al mattino porta il richiamo del muezzim a tutto il campo, mentre le campane della Chiesa tacciono.

Dott.Vincenzo Carrozza

Corriere della Calabria

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