Ven. Apr 19th, 2024

Canaloni di Consorzio e Area industriale intasati dalla vegetazione (e trasformati in discariche). Torrenti senza argini. Enti pubblici privi di mezzi. Viaggio nell’area industriale di Lamezia tra imprenditori e cittadini che provano a rialzarsi. Da soli

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 Quarant’anni di ricordi caricati su un muletto e pronti per finire in discarica. I muri ingialliti dai residui di un metro e trenta centimetri di acqua e fango. I mobili superstiti lasciati ad asciugare come panni al sole. A San Pietro Lametino si fa la conta della rabbia.
«Abbiamo chiamato i soccorsi: ci hanno detto che le persone avevano la priorità. Forse noi siamo animali». Il cortile di casa della famiglia Cosentino dista pochi metri da uno dei canali di scolo del Consorzio di bonifica. Il canalone avrebbe dovuto evitare che la piena colpisse le abitazioni, ma è diventato – in anni di incuria – un fitto canneto. E non solo, forse. «Lì dentro finisce di tutto: mobili, pneumatici, rifiuti». È possibile anche perché i cicli periodici delle pulizie sono piuttosto dilatati: si interviene ogni tre anni, se va bene. Mancano soldi e mezzi. Ma nell’area industriale di Lamezia chi paga le quote consortili pensa di non farlo più, «e che vengano a casa a chiederci di saldare gli arretrati». Quello delle istituzioni è un ritornello già sentito: un paio di giorni di promesse solenni, poi la cura del territorio tornerà dove è sempre stata, nel limbo degli interventi che costano tanto e non portano voti.

 
I residui dei mobili della famiglia Cosentino caricati su un muletto dopo l’alluvione

Nell’hinterland di Lamezia, però, gli interventi hanno seguito nel corso degli anni logiche misteriose. Una giungla di competenze, ma questa volta non è soltanto una metafora, perché la vegetazione riempie tutto. L’area è piena di canaloni per smaltire le acque. Sono tutti intasati e sono così tanti che si incrociano: quelli del Consorzio vanno verso valle, mentre pare quasi che i solchi scavati dall’Area industriale si dirigano verso la direzione opposta. Dagli anni 70 circola un aneddoto. Si racconta che, una volta vista l’inclinazione dei canaloni dell’Area industriale, uno dei proprietari terrieri della zona si avvicinò a un ingegnere e gli chiese: «Lei si è laureato studiando sui sacchi di patate?». Antica saggezza a parte, qui – nella notte tra giovedì e venerdi scorsi – l’acqua e il fango che provavano a defluire verso il mare si sono scontrati con le canne che riempiono i solchi di “proprietà” del Consorzio, poi hanno incrociato le piante cresciute nei canaloni dell’AsiCat, infine – almeno per la porzione di liquido e terra che è riuscita a superare i primi due ostacoli – hanno impattato contro un muretto piazzato proprio all’uscita di uno dei tubi. Risultato: quasi un metro e mezzo di acqua ha invaso l’azienda di Massimiliano Serianni trasformando in cartapesta anche i documenti fiscali. Le buste paga sono ancora “stese” al sole ad asciugare.

Documenti “stesi” ad asciugare nell’azienda di Massimiliano Serianni

La tempesta perfetta ha piegato la Calabria e si è portata le vite di Stefania Signore e suo figlio Cristian (il piccolo Nicolò, due anni, è ancora disperso). Intanto pezzi di Stato – la presidente del Senato Alberti Casellati – sono passati a ricordare che «serve più Stato» mentre in alcune aziende e in certe abitazioni private non è passato nessuno, neppure per controllare. È così da quella notte: all’una in azienda c’erano 15 centimetri d’acqua. Mezz’ora dopo la richiesta di un escavatore che potesse sgomberare i canali è andata a vuoto. Alle due, assieme ai dipendenti, Serianni è riuscito a mettere in salvo i vitelli; poi si è rivolto a un privato che è arrivato con un mezzo capace di intervenire per dare almeno un po’ di sfogo all’acqua che aveva invaso tutto, dopo che dal Comune di Lamezia era arrivato un piccolo escavatore, inadeguato all’emergenza.

 

 

 

Lungo il torrente Turrina va addirittura peggio: per cento metri è rimasto soltanto uno degli argini; l’altro – che confina con alcune aziende dell’area – è stato spazzato via. Ancora oggi non c’è un freno all’acqua. Se dovesse tornare a piovere con forza, il fiume non dovrebbe neppure esondare. L’assenza di interventi (e non l’emergenza, almeno questa volta) lo trasformerebbe immediatamente in un lago. Giuseppe Squadrito è il titolare di un’azienda florovivaistica. La sua attività è a pochi metri dal fiume. «Abbiamo paura che accada di nuovo», dice. Servirebbe più Stato. Già, ma lo Stato dov’è?

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