Gio. Apr 18th, 2024

Le mani dei clan su tutte le amministrazioni locali. La scelta dei referenti a cui affidare la “cosa pubblica”. I rapporti antichi con la politica. Trent’anni di «dittatura silenziosa» della ‘ndrangheta raccontanti della sentenza del processo Gotha

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La politica. Cosa loro. L’amministrazione. Cosa loro. Le strade. Cosa loro. Tasse e tributi. Cosa loro. Il cibo messo a tavola e persino quello buttato via. Cosa loro. I posti di lavoro. Cosa loro. Il tempo libero e le attività culturali o presunte tali in cui impegnarlo. Anche questo era cosa loro. 
Se c’è un dato che emerge con drammatica evidenza dalle motivazioni della sentenza Gotha, scaturita dall’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, è che Reggio Calabria da oltre 30 anni è città a democrazia limitata. A fare da confine al libero esercizio anche dei più basilari diritti costituzionali è stato – e probabilmente lo è ancora – un nucleo di potere criminale. Per oltre 30 anni a Reggio Calabria ha comandato la ‘ndrangheta.

CITTÀ A DEMOCRAZIA LIMITATA È stata la sua direzione strategica a decidere l’amministrazione, a piegarla alle proprie esigenze, convenienze e desiderata, a spartire fra i clan i più remunerativi business. Quelli pubblici o semipubblici, come le municipalizzate. Quelli privati, come la grande distribuzione. Entrambi usati per costruire guadagni e consenso, forgiato su posti di lavoro distribuiti a titolo di “favore” e mantenuti spesso a patto di silenzio su abusi, stipendi restituiti per metà, sfruttamento, fedeltà e silenzio. Le oltre 2400 pagine con cui il gup Laganà ha motivato le pesantissime condanne distribuite fra gli imputati al termine del primo grado dell’abbreviato di Gotha sono una fotografia tragica di una città in cui la democrazia è sospesa. Ed è verità giudiziaria, suffragata da prove, non analisi sociologica.

STRUTTURA VERTICISTICA C’è un dato ormaI «processualmente acclarato» e da cui bisogna necessariamente partire – sottolinea il giudice – per comprendere pienamente i termini della questione. «La ‘ndrangheta, quale associazione per delinquere di stampo mafioso, storicamente radicata nel territorio calabrese ed in particolare nella provincia di Reggio Calabria – si legge nelle motivazioni – ha struttura unitaria e tendenzialmente verticistica». E il vertice è costituito da un organismo concreto, operativo, efficace. Ne parla, intercettato nel luglio 2013, Filippo Chirico, reggente del clan Libri, che spiega: «Qua a Reggio contano i… i sei, sette. Invece De Stefano dice che è scesa la questione, sei, sette. Il coso è di sette». Ne raccontava, anche lui ascoltato, il boss Sebastiano Altomonte, che nel 2007 disquisiva della «invisibile che è nata da un paio di anni».

LA DIREZIONE STRATEGICA Un’organizzazione complessa, blindata, fino all’inchiesta Gotha considerata a prova di pentiti e indagini, ma al tempo stesso estremamente agile. Un’organizzazione – è anche questo è tristemente provato – in grado di instaurare una vera e propria dittatura silenziosa a Reggio Calabria. «Si tratta – annota il giudice nelle motivazioni – di una funzione, quella esercitata dal vertice occulto del sodalizio, di “indirizzo” delle scelte strategiche dell’associazione criminale unitariamente intesa, la quale è stata esplicata attraverso l’opera di vera e propria penetrazione nei gangli vitali della vita sociale civile (le istituzioni governative locali e non, i relativi apparati amministrativi), al fine di orientarne le iniziative e le decisioni in senso favorevole agli interessi criminali della medesima associazione».

LA STRATEGIA DELLA CUPOLA Due le linee strategiche definite e perseguite dalla cupola. Primo, «una costante e metodica azione di infiltrazione e conseguente condizionamento delle amministrazioni locali (città, provincia, regione) e dei relativi apparati di governo (consiglio comunale della città di Reggio Calabria; consiglio comunale della Provincia di Reggio Calabria; giunta della Regione Calabria), ciò che ha permesso di orientare, di fatto, le scelte degli amministratori (politici, dirigenti e funzionari) in favore degli strategici interessi criminali della ‘ndrangheta». Traduzione, con il loro voto i cittadini di Reggio Calabria non hanno mai deciso alcunché perché tutto era stato già in precedenza definito dalla direzione strategica dei clan. Secondo, «l’intromissione in settori nevralgici della vita economica locale con particolare riferimento alla grande distribuzione alimentare ed alle attività commerciali connesse a tale “macro” interesse economico».

LA MACCHINA DEL POTERE Di fatto, la direzione strategica dei clan contaminando la politica ha creato una macchina perfetta non solo per accrescere e consolidare il proprio potere, ma soprattutto per mantenerlo. Mettere le mani su tutte le amministrazioni locali ha significato per i clan porre le basi per la gestione del consenso elettorale, ma soprattutto per consolidare quella spartizione di potere criminale su cui sono stati fondati e mantenuti gli equilibri successivi alla seconda guerra di ‘ndrangheta. Sul piatto c’era Reggio Calabria, smembrata e spolpata attraverso le sue municipalizzate. Di fatto dunque, in un contesto in cui «la quasi totalità delle liquidità è costituita dai flussi economici di derivazione regionale, statale e comunitaria», la ‘ndrangheta ha preso in mano le principali leve economiche della città.

LA POLITICA NECESSARIA «La spartizione da parte della ‘ndrangheta delle cosiddette società miste – si legge infatti nelle motivazioni della sentenza – è stata in primo luogo attuata attraverso la penetrazione nel tessuto politico locale (che ha in primo luogo “creato” le condizioni di esistenza delle predette società a partecipazione prevalentemente pubblica) e, successivamente, realizzata per mezzo dell’indebita azione di gestione delle c.d. aziende municipalizzate da parte di singoli esponenti politici locali, per scopi apparentemente (solo) “elettorali”, ma in realtà utili (altresì) a soddisfare gli interessi criminali delle cosche di cui, spesso, il singolo esponente politico era espressione».

LA STORIA INSEGNA A dimostrarlo c’è la cronaca politica recente della città di Reggio Calabria. Non è caso che l’ex senatore Antonio Caridi, imputato in ordinario come riservato al servizio della direzione strategica della ‘ndrangheta, abbia sempre difeso gelosamente le deleghe assessorili che gli consentivano di intervenire sulle municipalizzate. Non è un caso che l’ex consigliere comunale Manlio Flesca, condannato per corruzione elettorale, abbia garantito l’assunzione alla Reges alla moglie dell’imprenditore dei clan, Vincenzo Barbieri, in cambio di voti.

PILASTRI E PIETRA ANGOLARE  Per il giudice «la gestione indiretta e mediata della “cosa pubblica” da parte del sodalizio criminale è stato lo strumento per raggiungere e garantire il dominio sui flussi di denaro gestiti dagli Enti locali (Comune, Provincia e Regione), con evidenti ed ovvie profittevoli conseguenze per la ‘ndrangheta: una (di più immediato rilievo) di carattere economico, costituita dalle ingenti somme drenate dalle casse degli Enti pubblici; l’altra (meno evidente, ma certamente di gran lunga più redditizia e vantaggiosa per il sodalizio unitariamente inteso) di carattere socio-politico, costituita dalla creazione e consolidamento di un legame clientelare tra l’elettore (futuro dipendente della società mista) ed il politico corrotto, espressione della singola ‘ndrina». Sono questi i pilastri della dittatura dei clan a Reggio Calabria, ma la loro pietra angolare e presupposto necessario è se possibile ancora più grave «nella gestione, da parte dei membri apicali occulti della ‘ndrangheta, della “cosa pubblica” e, in particolare, nella selezione ed individuazione del referente politico cui affidare la “cosa pubblica”».

‘NDRANGHETA E POLITICA, RAPPORTO ANTICO E con la politica, la direzione strategica dei clan ha sempre avuto un rapporto ombelicale, che va ben oltre il voto di scambio. Le sue radici – ricorda il giudice – affondano nella “Società di Santa”, «momento di contatto e di sintesi di quelli che, fino a quel momento, costituivano due diversi e distinti mondi: quello criminale incarnato, fino a quel momento, da Mommo Piromalli e dai fratelli Paolo e Giorgio De Stefano e quello della società civile, costituito dalla borghesia, dalla politica e dall’imprenditoria». Un contatto reso possibile dalla massoneria deviata, che – specifica il gup- «ha assicurato pari dignità illecita ad entrambi gli ambienti». E il pentito Cosimo Virgiglio, massone di alto rango e per lungo tempo prestanome dei Molè, lo ha spiegato bene.

MUTUO VANTAGGIO «Attraverso quel “varco” costituito dai Santisti (che sono rappresentati da soggetti insospettabili) – ha messo a verbale Virgilio – il mondo massonico entra nella ‘ndrangheta e non viceversa». Ed entrambi in questo modo soddisfano una fondamentale esigenza: la gestione dei flussi elettorali per «la componente massonica, fortemente politicizzata» e il «consolidamento degli ingenti capitali sporchi, già formati, che andavano ricollocati sul mercato, anche estero, mediante strumenti finanziari evoluti, gestiti attraverso gli appartenenti alla massoneria» per la componente di ‘ndrangheta. Il risultato è la costruzione e il consolidamento di «un sistema allargato di potere in cui convivono, in osmotico interscambio di uomini e mezzi, elementi di vertice del sodalizio criminale ed esponenti della società civile, dell’associazionismo, delle Istituzioni, delle Forze dell’Ordine, della Magistratura». E mai sarebbe stato possibile senza un ombelicale legame ‘ndrangheta-politica.

UN RAPPORTO CHE CAMBIA Una relazione complessa, cementata nel periodo dei Moti di Reggio e dei progetti eversivi cui la ‘ndrangheta non si è mai sottratta, che nella sua evoluzione va ben oltre il “semplice” rapporto di voto di scambio con il singolo esponente politico, su cui orientare i voti in cambio di denaro, favori o entrambe le cose. Quel tipo di strategia – si spiega in sentenza – è stata superata dall’élite della ‘ndrangheta già al termine della seconda guerra fra i clan di Reggio. E a spiegarlo è l’avvocato Giorgio De Stefano in persona, il primo elemento di vertice della direzione strategica dei clan condannato come tale. «I voti – dice intercettato – li deve portare il politico, non li deve portare la famiglia… quella te li porta, ma non sono niente».

IL POLITICO DEI CLAN Il politico va individuato, addestrato e portato per mano, come – emerge dall’inchiesta – è successo con l’ex sindaco di Reggio Calabria, nonché governatore della Regione, Giuseppe Scopelliti. In alternativa, si crea a tavolino, come è successo all’ex senatore Antonio Caridi. Ma questi non sono che esempi. Perché – annota quasi mestamente il giudice – «la rilettura del materiale investigativo dimostra che nell’anno 2002 Romeo Paolo e De Stefano Giorgio hanno avuto un ruolo determinante per le elezioni del sindaco del Comune e del presidente della Provincia di Reggio Calabria e nella formazione dei rispettivi Consigli e Giunte». Così come determinate – è stato provato in giudizio – è stata l’ombra della direzione strategica dei clan nell’agire quotidiano di quelle amministrazioni. E il conto lo hanno pagato e lo continua a pagare chi vive a Reggio Calabria, suddito più che cittadino di una democrazia sospesa.

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