Gio. Apr 25th, 2024

Il caso del paesino del Vibonese «dove nessuno chiede il reddito di cittadinanza» ricorda altri episodi simili che, oltre al clamore del momento, non hanno prodotto le riflessioni necessarie sullo stato dell’economia reale nei paesi dell’entroterra calabrese. Intervista ad Antonio Cavallaro, autore de “La costruzione mediatica della povertà”

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La dinamica è ormai quasi ciclica, cambia il contesto e – sebbene non di molto – il luogo. Nei giorni scorsi un piccolo paese del Vibonese, Dinami, è stato preso ad esempio da Repubblica per raccontare il «paradosso» del piccolo Comune della periferia più arretrata del Paese che ha il reddito pro capite più basso della Calabria e dove però «nessuno chiede il reddito di cittadinanza». Un ventennio fa qualcosa di simile accadde per Nardodipace, paese montano delle Serre che, complice una lettura un po’ superficiale che alcuni giornali nazionali fecero dei dati nazionali sul reddito, si vide appioppata addosso per molti anni l’etichetta di «paese più povero d’Italia». Su quell’episodio Antonio Cavallaro, che oggi è responsabile della comunicazione esterna di Rubbettino Editore, scrisse una tesi di laurea che fu poi pubblicata con il titolo “La costruzione mediatica della povertà: come Nardodipace divenne il comune più povero d’Italia”.

Cavallaro, questa vicenda, sebbene con contorni diversi, ricorda quella accaduta anni fa nel suo paese d’origine, Nardodipace. Cosa successe all’epoca?
«Era l’estate del 1989 e il Banco di Santo Spirito (poi inglobato assieme al Banco di Roma nella Banca di Roma) pubblicava la ricerca biennale relativa al reddito pro-capite nei comuni italiani. Era un lavoro molto serio che cercava di arrivare a una stima del benessere dei singoli cittadini non partendo dalle sole dichiarazioni dei redditi ma attraverso tutta una serie di indicatori che avrebbero potuto fornire una stima del reddito pro-capite più accurata che bypassasse il reddito sommerso. Come si potrà capire il rischio di errori in questo caso era molto alto e gli statistici che avevano portato a termine la ricerca (che venne curata da Giorgio Marbach) avvertivano nelle premesse dello studio pubblicato che quei dati non andavano considerati in maniera assoluta e non andavano usati per fare classifiche e improbabili gare tra più ricchi e più poveri. Quello che i dati potevano indicare con precisione era semmai l’esistenza di “grappoli” di comuni (così venivano definiti) che condividevano situazioni economiche simili. Ma come sa meglio di me, i giornalisti raramente leggono per intero una pubblicazione e in quel caso si fermarono alle tabelle di sintesi che, per un curioso gioco del destino vedevano Nardodipace come ultimo della classifica con un reddito pro-capite pari esattamente al 10% del comune più ricco, che era Portofino: 3,5 milioni Nardodipace; 35 milioni Portofino. Dal punto di vista del racconto giornalistico, la cosa era troppo ghiotta per non essere raccontata. Se aggiunge che la statistica venne pubblicata in estate, periodo in cui in genere l’informazione “hard” langue e si dà ampio spazio e notizie di costume e a notizie “soft”, capirà come questa notizia, che in un altro momento dell’anno avrebbe occupato un trafiletto su qualche giornale, ebbe una risonanza del tutto inaspettata. In autunno, poi, Enzo Biagi tornò a condurre la sua celebre trasmissione “Linea diretta” e, vista la notorietà che la vicenda del comune più ricco e di quello più povero d’Italia aveva acquisito, dedicò anch’egli una puntata alla vicenda. A Natale fu la volta di “Uno Mattina” e da lì cominciò una vera e propria telenovelas mediatica farcita talvolta di elementi persino inventati e fantasiosi: “Repubblica” descriveva il paese (ricostruito ex novo negli anni ‘50 quindi con case comode e moderne) con i «tetti di paglia e fango e quando va bene di lamiera»…

Quel caso la portò a scrivere la sua tesi di laurea. Ma il suo paese era davvero il più povero della Penisola?
«Di sicuro non era il più ricco. La distanza che c’era tra Nardodipace e Portofino era e rimane siderale. Tuttavia se i giornalisti (ma anche le persone comuni) si fossero preoccupati di leggere con attenzione la ricerca del Banco di Santo Spirito avrebbero visto che quello che la ricerca diceva è che in termini di reddito la Calabria interna era infinitamente più povera di altre zone del Paese e non certo che Nardodipace era un enclave dei poveri in una Calabria di Paperon de’ Paperoni. Il comune più ricco dell’allora provincia di Catanzaro era proprio il capoluogo che però vantava un reddito di poco superiore ai cinque milioni di lire, circa 30 milioni in meno del più ricco della classifica».

Eppure questo “stigma” durò a lungo. Una triste etichetta affibbiata altrettanto frettolosamente a Dinami che però, proprio come fu per Nardodipace, non suscita, come dovrebbe, riflessioni sullo stato dell’economia reale dei paesi dell’entroterra.
«Le ragioni della persistenza dell’immagine del comune più povero d’Italia sono varie e per questa ragione volli condurre quella ricerca. Non certo per smentire o confermare il fatto che il paese fosse o non fosse effettivamente povero ma per capire le ragioni di “tanta fortuna” (in termini giornalistici) di una simile etichetta. Qualche anno fa lo scomodo posto sul podio toccò a Torre di Ruggiero, per esempio, eppure la notizia passò in sordina. A Nardodipace, oltre che per le ragioni di cui parlavo, si verificò un meccanismo molto curioso che meriterebbe di essere indagato ancora più a fondo. Gli amministratori dapprima cercarono (come ha fatto d’altronde il sindaco di Dinami con il giornalista di “Repubblica”) di sminuire la portata della notizia senza grande successo. Una volta resisi conto dell’inutilità della difesa e dell’uso della razionalità, gli amministratori capirono che forse l’essere rimasti con il cerino acceso in mano, ricorrendo a un po’ di astuzia, poteva rivelarsi persino utile. Un amministratore da me intervistato per la tesi mi disse: “Vedi essere ultimo è molto meglio che essere penultimo. Se sei penultimo stai male uguale, ma se sei ultimo puoi rivendicare attenzioni che diversamente non avresti avuto”. Fu così che si venne a creare un patto formidabile tra media e politica locale. Quest’ultima poteva godere di un podio inaspettato dal quale richiamare l’attenzione sul proprio Paese – se il sindaco del comune più povero d’Italia denuncia una situazione di difficoltà o di degrado conquista subito le prime pagine dei giornali nazionali – i media, dal canto loro, avevano la possibilità di raccontare delle storie che, specie in alcuni periodi dell’anno (vedi per esempio il Natale), attiravano subito la curiosità e l’interesse dei lettori. Se aggiunge a questo che proprio in quell’anno il Banco di Santo Spirito venne acquisito da un gruppo bancario più grande e smise dunque di commissionare e pubblicare la ricerca sul reddito nei comuni italiani, capisce subito come, in assenza di altri pretendenti e di notizie simili, il posto sul podio di comune più povero era facilmente assicurato per molto tempo».

E si rischia di perdere di vista la dimensione reale del problema, quello vero…
«Certo, nel momento in cui una realtà viene affrontata come eccezionale e straordinaria si finisce per non vedere il contesto in cui questa è inserita. Ora il fatto che gli ultimi tre comuni definiti negli ultimi anni come tra i più poveri d’Italia si trovino tutt’e tre nell’area delle Serre dovrebbe quanto meno indurre gli amministratori pubblici, ma anche i cittadini, di tutto il comprensorio a interrogarsi profondamente sulla situazione socio-economica della zona. Il problema non è tanto se Dinami, o Nardodipace o Torre siano più o meno poveri. Cosa cambierebbe se Dinami fosse più o meno povero di Fabrizia o di Nardodipace? Le statistiche però, come abbiamo spiegato, al netto di possibili errori di precisione, indicano comunque delle tendenze. Il problema da porsi è dunque semmai quello del perché le Serre non riescano a dare vita ad alcuna direttrice di sviluppo che tenga conto in maniera non episodica anche delle tante potenzialità del territorio; è quello del perché non vi sia una classe dirigente (attenzione non mi riferisco solo alla politica) all’altezza delle sfide a cui è chiamata e, soprattutto, quello di interrogarsi profondamente su un fenomeno di cui, a quanto vedo, pochi si stanno preoccupando come dovrebbero ovvero il rapido spopolamento della zona. Le Serre in questi anni sono un comprensorio in fuga da se stesso».

Ma al di là di tutto il racconto mediatico – che spesso piega la realtà a un intento preconfezionato – è servito poi a qualcosa? A Nardodipace oggi si sta meglio di quando era noto come il Comune più povero d’Italia?
«Il racconto mediatico serve ad attirare attenzione. I media hanno sempre lo scopo di accendere dei riflettori. Certo i riflettori a volte possono essere troppo forti e distorcere la realtà, possono mettere in luce, come abbiamo detto, alcune zone e lasciarne in ombra altre. Sta a noi però riuscire a usare quella luce come opportunità per fare analisi dettagliate che la velocità del circuito della notizia non consente. Non so se a Nardodipace si stia meglio oggi. Probabilmente anche grazie all’utilizzo strumentale della vicenda del comune più povero d’Italia dal punto di vista economico si sta persino meglio. Il Comune è riuscito a far assumere un gruppo consistente di operai dall’Afor oggi confluita in Calabria Verde e questo ha significato dare senza dubbio un grosso sospiro di sollievo a molte famiglie. Tuttavia questo genere di operazioni non portano con sé germogli di futuro. Molti padri di famiglia sono rimasti a Nardodipace, ma i loro figli sono partiti o stanno partendo. Quando frequentavo la scuola media c’erano sei classi, oggi credo ci sia un’unica pluriclasse. Al mattino da Nardodipace partivano due autobus carichi di studenti che si recavano presso le scuole superiori della vicina Serra San Bruno; oggi gli studenti medi superiori si contano sulle dita di una mano. C’erano svariati negozi e servizi che oggi sono scomparsi. In inverno il paese è deserto. Le può capitare di attraversarlo senza incontrare una sola persona. Si respira un’aria di sfiducia per il futuro e di profonda rassegnazione. No, non credo proprio si stia meglio oggi di allora».

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