L’esame del ricorso dell’Avvocatura di Stato, le vicende giudiziarie che coinvolgono alcuni consiglieri comunali e tutto quanto che ritorna in ballo dopo la decisione del Consiglio di Stato, compreso il procedimento sull’incandidabilità che dovrà essere discusso in appello
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Neanche il tempo di riunire il primo consiglio comunale della reintegrata amministrazione targata Paolo Mascaro, dopo lo scioglimento per infiltrazione mafiosa di novembre 2017, che il Consiglio di Stato ha accolto la richiesta di sospensiva proposta dall’Avvocatura dello Stato. Con un decreto cautelare il CdS ha congelato qualsiasi attività fino all’11 aprile prossimo. Nel frattempo la giunta si era riunita, le commissioni pure, e non avevano mancato di comunicarlo. Consiglieri vari avevano già cominciato a diramare comunicati. Ma dal 22 febbraio scorso, da quando è stata pubblicata la sentenza del Tar del Lazio che annullava il decreto di scioglimento mai era stato convocato il consiglio comunale. Tanto che è di appena quattro giorni fa un comunicato del consigliere di minoranza, Rosario Piccioni, che lamentava: «In quasi un mese ancora non è stato convocato il consiglio comunale. Possibile che dopo una pagina così difficile per il consiglio comunale e per l’intera cittadinanza il sindaco e la sua maggioranza non hanno pensato che fosse assolutamente indispensabile ricominciare parlandosi, confrontandosi, dialogando, partecipando, in modo libero e responsabile?» Pare che poco dopo questo comunicato il presidente del consiglio, Salvatore De Biase, avesse indetto una riunione dei capigruppo per decidere la data della prima assise. Ma il decreto dei giudici amministrativi di secondo grado è arrivato prima. E con parole pesanti come macigni: «…i gravi fatti posti a fondamento della misura dissolutoria, annullata dalla sentenza oggetto della impugnazione in esame, non sembrano essere stati correttamente valutati da detta sentenza nella loro natura sintomatica di una più che probabile ingerenza della ‘ndrangheta sulla vita politica e amministrativa dell’ente locale nel suo complesso, anche indipendentemente dall’appartenenza dei consiglieri eletti alla maggioranza o alla minoranza».
STREPITI E SCIOPERI DELLA FAME Mascaro non ci sta. Strepita contro i “farisei” contro “finti servitori di uno Stato che ogni giorno massacrate». Proclama scioperi della fame. Contro chi? L’Avvocatura dello Stato che doveva stare a guardare dopo la sentenza del Tar? Contro la Procura di Lamezia? Contro il ministero dell’Interno? Contro il decreto del Consiglio di Stato? Restavano 15 mesi per governare e dal 22 febbraio non è stato convocato un solo consiglio comunale. Tutto quello che è avvenuto era prevedibile. Mascaro, che fa l’avvocato, doveva saperlo meglio degli altri. Ora è di nuovo tutto in ballo, compreso il procedimento sull’incandidabilità che dovrà essere discusso in appello. A chi giova baccagliare contro i “farisei”? Cui prodest? A dimostrare di essere una vittima? Come quando, rientrato in Comune dopo la sentenza del Tar, scrisse su Facebook che un rogo al campo rom era un segnale della criminalità contro il suo ritorno di scomodo paladino della legalità. Un rogo al campo rom? Sindaco, a volte è meglio tacere.
PREVENIRE E’ MEGLIO CHE CURARE Dal canto suo l’Avvocatura dello Stato, nel ricorso presentato al Consiglio di Stato, contesta punto per punto le motivazioni dei giudici del Tar. Questi, per esempio, sostengono che ad essere coinvolti nell’operazione antimafia “Crisalide”, che aveva dato il via alle procedure per lo scioglimento del consiglio comunale, erano stati coinvolti due esponenti della minoranza: Giovanni Paladino e Pasqualino Ruberto, i quali, secondo l’accusa – che ancora è in attesa di sentenza di primo grado – sarebbero scesi a patti con la consorteria Cerra-Torcasio-Gualtieri per ottenere sostegno elettorale nel corso delle amministrative del 2015. Secondo il Tar Lazio «i due consiglieri ai quali è stato contestato il reato di concorso esterno in associazione mafiosa … sono appartenenti ad un raggruppamento politico diverso da quello rappresentato in giunta, né il provvedimento individua attività degli stessi idonee a condizionare l’operato dell’organo consiliare, al quale gli stessi appartenevano, o dell’organo esecutivo, del quale, come visto, non facevano parte». Dunque, sì, potrebbero essere legati alla ‘ndrangheta ma facevano parte della minoranza e non avevano peso (se non si conta il fatto che uno, Paladino, aveva cambiato sponda ed era vicepresidente del consiglio). Ma l’avvocatura sottolinea che «il Tar da un lato non ha tenuto nel debito conto la circostanza che l’avvenuta elezione dei candidati in questione in seno al consiglio comunale di Lamezia Terme ha rappresentato una vera e propria “testa di ponte” per la criminalità organizzata dall’indubbia potenzialità inquinante; dall’altro, ha omesso di considerare la funzione di “tutela avanzata” della misura dissolutoria». Insomma, secondo una recente sentenza del Consiglio di Stato, sciogliere un consiglio comunale «non ha natura di provvedimento di tipo sanzionatorio, ma preventivo, con la conseguenza che, ai fini della sua adozione, è sufficiente la presenza di elementi che consentano di individuare la sussistenza di un rapporto tra l’organizzazione mafiosa e gli amministratori dell’ente considerato infiltrato».
LA VICENDA DE SARRO Nel ricorso dell’Avvocatura, inoltre, risulta incomprensibile il fatto che sia stata tanto sottovalutata la vicenda del consigliere comunale Francesco De Sarro, già presidente del consiglio comunale fino alle dimissioni rassegnate il 20 giugno 2017. Indagato per voto di scambio, la sua posizione è stata stralciata. Resta in piedi quella di suo padre Luigi, già medico nell’ospedale cittadino, che avrebbe coinvolto altre due persone nel procacciare voti per il figlio in cambio di denaro. Ma il Tar liquida la vicenda asserendo che i fatti alla base del voto di scambio non erano riconducibili «alla criminalità organizzata, né a diversa conclusione può giungersi in considerazione del fatto che la vicenda sia stata oggetto di discussione tra due persone intercettate nell’ambito dell’-OMISSIS- (delle indagini antimafia “Crisalide”, ndr), le quali si limitano, infatti, a commentare la vicenda».
«Sennonché, il Tar – scrive l’Avvocatura – ha trascurato la circostanza che nell’ambito del medesimo procedimento penale riguardante il padre del menzionato consigliere comunale è risultato indagato, tra gli altri, anche Claudio Belville «zio paterno di Davide Belville arrestato nell’ambito dell’operazione “Crisalide” per gravissimi reati connessi alla criminalità organizzata perpetrati in concorso con i capi cosca». Una vicenda di «mercificazione di voti» che avrebbe procurato a Francesco De Sarro un’elezione plebiscitaria di 934 voti. Secondo l’accusa Luigi De Sarro avrebbe dato la somma di 1000 euro in contanti a Luigi Gigliotti con incarico di cercare voti elettorali per il figlio candidato, incarico che il Gigliotti accettava dividendo il denaro ricevuto con Belville Claudio e Mercuri Luciano Antonio i quali compartecipavano al procacciamento dei voti elettorali in favore del candidato Francesco De Sarro. Le cose degenerano quando Belville insieme a un’altra persona dà fuoco all’auto di Gigliotti, accusato di non avere distribuito equamente il denaro ricevuto da De Sarro padre. «Il Tar – scrive nel ricorso l’Avvocatura – non ha tenuto in debita considerazione il ruolo svolto dal Belville – legato da stretti vincoli familiari ad un esponente della ‘ndrangheta locale – il quale ha compartecipato al “procacciamento di voti elettorali” in favore di Francesco Sarro – poi eletto consigliere comunale e nominato presidente dell’organo consiliare – senza farsi scrupolo di utilizzare i metodi violenti sopra descritti». Che il candidato non fosse a conoscenza dei propositi del padre, secondo la giurisprudenza e una sentenza del CdS del 2017, “nulla rileva”.
LA CONSIGLIERA RASO «Destano parimenti perplessità le argomentazioni spese dal TAR in riferimento alla posizione dell’assessore Marialucia Raso (maggioranza) il cui fidanzato Alessandro Gualtieri è stato interessato dall’operazione di polizia giudiziaria “Crisalide” in quanto ritenuto responsabile di traffico illecito di sostanze stupefacenti. «Non vi è chi non veda come il descritto, stretto legame tra la Raso ed un soggetto interessato dalla medesima indagine giudiziaria che ha visto coinvolti gli esponenti apicali della consorteria territorialmente egemone costituisca evidentemente un pregiudizievole collegamento di cui non si può non tenere conto nell’ambito di una valutazione globale e non frammentaria degli elementi posti a fondamento della misura dissolutoria», è scritto nel ricorso dell’Avvocatura.
TITINA CARUSO Stesso discorso si profila per quanto riguarda la consigliera Titina Caruso (maggioranza) e indagata unitamente al marito Giuseppe Cristaudo per bancarotta fraudolenta in relazione alle attività imprenditoriali gestite dai due coniugi ed aventi ad oggetto “sale giochi ed affini”. In proposito, il Tar ha correttamente stigmatizzato la dichiarazione resa in un interrogatorio del 2012 dal collaboratore di giustizia Angelo Torcasio in cui si dà atto dei rapporti intessuti dal predetto Giuseppe Cristaudo con il boss Giuseppe Giampà, poi diventato a sua volta collaboratore di giustizia. Nondimeno, contraddittoriamente, il Tar ha ritenuto quella dichiarazione irrilevante osservando che «per quanto puntuale, si riferisce tuttavia a fatti verificatisi prima del 2004, che non risultano avere dato vita a specifiche contestazioni». Viceversa, la dichiarazione in questione appare assai pregnante e la mancanza di specifiche contestazioni penali non ne inficia la rilevanza alla luce del summenzionato orientamento giurisprudenziale e considerato che «la presenza di risultanze obiettive esplicitate nella motivazione, anche ob relationem, del provvedimento di scioglimento non deve coincidere con la rilevanza penale dei fatti, né deve essere influenzata dall’esito di eventuali procedimenti penali». La lettura d’insieme dello stato dell’arte, riassume l’Avvocatura: «In definitiva, contrariamente a quanto opinato dal Tar, i richiami alle vicende elettorali, ai contatti degli ex amministratori del comune di Lamezia Terme con soggetti controindicati nonché ai singoli episodi di deviazione dal corretto esercizio dell’attività gestionale delineano con ragionevole attendibilità un quadro indiziario idoneo a rivelare univocamente l’inquinamento dell’azione amministrativa dell’ente locale da parte della criminalità organizzata».