Gio. Mar 28th, 2024

Primario a Reggio, le indagini sul terribile omicidio alla fine non hanno portato a nulla, nessuno ha pagato

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Quel 20 marzo del 1993 la via non era solitaria, e Domenico Nicolò Pandolfo, primario di Neurochirurgia dell’ “Ospedale Riuniti” di Reggio Calabria, che lavorava senza risparmiarsi, fu freddato a Locri dove era consulente del nosocomio, in pieno giorno, con 7 pallottole. Aveva 51 anni. Il silenzio fu assordante. «Mio papà – racconta il figlio Marco – si è formato all’Università di Messina. Era di famiglia umile, i suoi genitori facevano i fattori, ma studiò con amore e dedizione, incoraggiato anche da suo padre, che coltivava da sempre l’ idea di far diventare il figlio medico». Dopo la specializzazione a Padova venne chiamato a Lecce. «Il prof. Bartolomeo Armenise venne incaricato di dirigere il reparto di Neurochirurgia dell’ospedale regionale “Vito Fazi” e avendo bisogno di un assistente preparato chiamò mio padre che accettò con piacere». Fu un anno importante: « Io sono nato proprio a Lecce e in quel breve periodo arrivò una nuova svolta. Infatti, proprio a Reggio, Romeo Eugenio Del Vivo, neurochirurgo di fama europea formatosi a Zurigo, chiamato a dirigere una nuova divisione neurochirurgica, dopo aver parlato con Armenise, scelse mio padre. Era felice non soltanto per l’opportunità, ma perché aveva il desiderio di avvicinarsi il più possibile a Messina». Tutto procedeva in maniera normale, fino al giorno della tragedia, rimasta senza un perché. «Mia mamma, insegnante, si è laureata dopo la nascita di mio fratello Luca, terzogenito dopo mia sorella Rita, e cominciò a lavorare in posti dimenticati della Calabria. Io, invece, da buon fratello maggiore cercavo di rendermi utile, anche con le cose più semplici come scaldare il pranzo che lei preparava». E quel giorno nero, Marco, che frequentava l’ ultimo anno di liceo, apprese la notizia appena tornò a casa, dove c’erano i nonni: «Squillò il telefono, era una mia zia di Messina che ci avvisava che al Tg 2 aveva appena sentito che avevano gravemente ferito un neurochirurgo. Dopo 5 minuti sono venuti dei colleghi di mio padre insieme a mia madre e ci siamo precipitati in ospedale. Non dimenticherò mai quella scena che mi si presentò davanti. Era disteso su un letto di ferro crivellato di colpi». Nicolò Pandolfo, al poliziotto che gli prestò soccorso affidò le sue ultime parole: «Ricordate il nome dei Cordì. Salutate mia moglie e i miei figli». Le indagini non portarono a nulla, anche se il principale indiziato era proprio Cosimo Cordì, considerato il capobastone dell’omonimo clan della locride, che avrebbe commissionato l’ omicidio perché Pandolfo non sarebbe riuscito a fare il “miracolo” e strappare dalla morte la figlia. La famiglia, poi, dopo la tragedia ha fatto ritorno a Messina e ha vissuto nel silenzio per scelta. È riuscita ad andare avanti grazie ad una madre-coraggio e ai ricordi belli che nessuno poteva e può strappare. E il dottore, come amaramente constata il figlio, è stato dimenticato e ucciso due volte: «Dopo anni ho scoperto che “Libera” è l’unica associazione che ricorda mio papà. Così ho deciso di ricordarlo anche io e parlare della sua storia nelle scuole». Marco Pandolfo ha un solo desiderio: « Sento la necessità di avere verità e giustizia per quello che è successo, e soprattutto vorrei ottenere un riconoscimento da parte delle istituzioni perché penso che papà lo meriti per quello che ha dato».

(GAZZETTA DEL SUD)

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