Mer. Apr 24th, 2024

La Consulta dichiara inammissibile l’iniziativa della Cittadella sul provvedimento per la sanità e sottolinea la «pregressa inerzia» sul settore. La deroga alla competenza delle Regioni è ammessa quando è necessario evitare che in alcune aree del Paese «gli utenti debbano assoggettarsi ad un regime di assistenza sanitaria inferiore, per quantità e qualità, a quello ritenuto intangibile dallo Stato»

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La Corte costituzionale si è pronunciata sul ricorso della Regione contro il decreto Calabria, la misura straordinaria approvata dal governo ad aprile (e convertita in legge a giugno) per la sanità calabrese. I giudici della Consulta hanno duramente bocciato il ricorso della Cittadella dichiarandolo «inammissibile» in alcuni punti e non fondato in altri. In sostanza, si legge nella sentenza, l’introduzione di una disciplina temporanea destinata solo alla Regione Calabria «non costituisce un intervento discriminatorio, ma ha la finalità di realizzare un necessario riallineamento della gestione della sanità locale rispetto agli standard finanziari e funzionali operanti per la generalità degli enti regionali». Il “supercommissariamento” della sanità calabrese è dunque riconducibile alla competenza esclusiva dello Stato non soltanto perché relativo all’esercizio del potere sostitutivo statale richiamato dall’articolo 120 della Costituzione (cioè «in caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica»), ma soprattutto perché rientrante nella sua competenza esclusiva in tema di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117). In particolare la Consulta fa riferimento all’obiettivo di «perseguire i livelli essenziali delle prestazioni in materia di tutela della salute nella Regione Calabria» che è già enunciato nel preambolo del decreto e «ancor più esplicitamente messo in evidenza nell’art. 1». Inoltre, nella misura in cui risponde alla funzione di orientare la spesa sanitaria verso una maggiore efficienza, l’intervento secondo i giudici costituzionali «rientra nell’ambito dei principi fondamentali della materia concorrente “coordinamento della finanza pubblica”». Insomma le concorrenti competenze regionali (anche in materia di tutela della salute e governo del territorio), con cui la legge impugnata interferisce «non risultano violate ma solo temporaneamente ed eccezionalmente “contratte”, in ragione della pregressa inerzia regionale o, comunque, del non adeguato esercizio delle competenze stesse». A questo proposito viene richiamato un principio già affermato dalla Consulta in una sentenza del 2013 per cui «quando una Regione viola gravemente e sistematicamente gli obblighi derivanti dai principi della finanza pubblica, come nel caso che conduce alla nomina del commissario ad acta, allora essa patisce una contrazione della propria sfera di autonomia, a favore di misure adottate per sanzionare tali inadempimenti da parte dello Stato». Altre due sentenze (del 2010 e del 2015) richiamate in riferimento al caso del decreto Calabria sanciscono poi che «la deroga alla competenza legislativa delle Regioni, in favore di quella dello Stato, è ammessa nei limiti necessari ad evitare che, in parti del territorio nazionale, gli utenti debbano assoggettarsi ad un regime di assistenza sanitaria inferiore, per quantità e qualità, a quello ritenuto intangibile dallo Stato».
«La Corte Costituzionale mi dà di nuovo ragione e boccia per la seconda volta un ricorso della Regione. Ora il ministro Speranza ha il dovere di far funzionare l’unico strumento in grado di risollevare la sanità calabrese», ha commentato l’ex ministro della Salute Giulia Grillo.

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