Ven. Apr 19th, 2024

La testimonianza del pentito Roberto Moio nel processo “’Ndrangheta stragista”. «Ero uno di famiglia, ma a certe riunioni con i De Stefano e con i siciliani erano ammessi solo i capi»

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Negli anni Novanta c’erano riunioni così delicate fra i massimi vertici della ‘ndrangheta e i siciliani che anche chi si occupava della latitanza dei boss ne era escluso. Chiamato a testimoniare al processo “’Ndrangheta stragista”, che vede imputati i boss Rocco Filippone e Giuseppe Graviano come mandanti dell’omicidio dei brigadieri Fava e Garofalo, è il pentito Roberto Moio, nipote e uomo di fiducia dei Tegano, a raccontare di quegli incontri e a spiegare concretamente la natura dei rapporti fra l’élite dei calabresi e i Santapaola nei cruciali anni Novanta. Un dettaglio determinante per comprendere quella fase. È in quel periodo – è l’ipotesi al centro dell’inchiesta “’Ndrangheta stragista”, coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo – che le mafie, insieme a settori dei servizi, della massoneria e dell’eversione nera, hanno costruito quella strategia della tensione con cui puntavano a mantenere il potere acquisito anche nel mutato quadro politico e ad imporre i propri uomini nel nuovo scenario. E quel piano è iniziato con l’omicidio Scopelliti – ha messo a verbale il collaboratore Maurizio Avola – e si è concluso – è emerso dall’inchiesta “’Ndrangheta stragista” – con quella serie di attentati che sono costati la vita ai brigadieri Fava e Garofalo e il ferimento di altri quattro militari.
Azioni pianificate nel corso di riunioni di massimo livello. Riunioni, probabilmente, come quelle a cui Roberto Moio non ha potuto partecipare, limitandosi ad accompagnare emissari dei Santapaola come Concetto Maugeri. Eppure il pentito era – afferma, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto – «uno di famiglia, uno di fiducia».
DA SOLDATO A UOMO DI FIDUCIA Affiliato fin dall’86-87, si è fatto le ossa nel gruppo di fuoco dei fratelli Alfonso e Gino Molinetti, poi è entrato dalla porta principale nella famiglia Tegano, fidanzandosi e poi sposando la nipote del boss Giovanni. Ed era considerato uno su cui poter contare. Non solo per le azioni di fuoco, che nella sua carriera non sono mancate. «Ho partecipato all’agguato a Nino Imerti, a quello a Paolo Condello. Sparavo per i Tegano-De Stefano» dice in aula. A lui sono state affidate anche latitanze di rango come quella di Giovanni e Mimmo Tegano, «un numero uno all’epoca», così come incarichi importanti. «Alla riunione di Sinopoli per la pace ho portato Antonio Nirta su incarico di Pasquale Tegano, perché all’epoca ero incensurato e in più ero di famiglia» racconta. Inoltre, ricorda, «qualche volta ho accompagnato Pasquale Tegano nell’appartamento di Giorgio De Stefano, l’avvocato, vicino la stazione Garibaldi. Lui è stato spesso a casa Tegano per riunioni, ma noi stavamo fuori, non potevamo partecipare».
LE GITE DI ANNACONDIA Non è l’unico soggetto di elevatissimo spessore criminale che Moio sia stato incaricato di scortare o accompagnare alla “corte” dei Tegano. È successo con Salvatore Annacondia, pugliese d’origine, ma divenuto killer preferito del “Consorzio” delle mafie a Milano. «L’ho visto spessissimo a Reggio, ma non dormiva da noi, dormiva al Miramare senza documenti. Lì non li registravano perché il proprietario del Miramare, Montesano, era un intimo amico dei Tegano, quindi ci faceva la cortesia».
IRRUZIONI FANTASMA E CORTESIE Ma una “cortesia” evidentemente l’hanno fatta agli arcoti anche i poliziotti che in un’occasione hanno interrotto una riunione a casa Tegano, a cui anche Annacondia stava partecipando. Un gruppo di agenti in borghese, racconta il pentito, li ha seguiti senza che se ne accorgessero e quando hanno suonato per far aprire il portone blindato che proteggeva il fortino degli arcoti, ne hanno approfittato per entrare. «All’interno della casa era in corso una riunione. C’era Pasquale Tegano, Mico Paviglianiti, Salvatore Annacondia, Carmelo Barbaro, Angelo Benestare, Franco De Marzo, di Cosenza, che era il nostro contatto con Franco Pino. Poi ho saputo che alcuni sono riusciti a scappare da una porticina secondaria che permette di entrare direttamente a casa di Emilio Firriolo. Pasquale e Angelo mi hanno rimproverato perché non mi sono accorto che la polizia ci seguiva». Di quell’irruzione però non c’è traccia, mai è stata redatta una nota, né in quell’occasione sono stati fatti arresti. «Di quello che è successo con i Tegano non ho parlato, ma Pasquale mi ha detto che era andata bene perché nessuno era stato fermato e che alcuni – dice Moio, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto – erano riusciti a scappare». E all’epoca, Moio non se n’è stupito. Del resto, «i Tegano avevano rapporti con i poliziotti. Li gestiva Pasquale Tegano, ma c’erano anche i Frascati a fare da intermediari. Come quando c’è stato il mancato arresto di Giovanni Tegano da Siciliano. Loro sapevano che quel giorno ci sarebbe stato il blitz e lo hanno spostato per tempo. Ci si scambiava favori». Nel caso di quell’irruzione fantasma – ha dichiarato qualche mese fa il pentito Cuzzola, anche lui presente in quell’occasione – il favore è stato fatto al prezzo di dieci milioni, consegnati in una borsa al dirigente responsabile di quell’attività.
GLI INCONTRI CON I SICILIANI Annacondia però non era l’unico “straniero” a frequentare il fortino degli arcoti. «I Tegano avevano una stretta amicizia con i Santapaola e con una famiglia a loro legata. Più volte è venuto Concetto Maugeri, dei Santapaola, e anche lui ha soggiornato al Miramare. Io lo andavo a prendere e lo portavo dai Tegano, mentre i giovanotti con cui si accompagnava rimanevano in via Marina. Lui aveva una cinquantina d’anni. Quando Maugeri andava a trovare i Tegano, passava la giornata lì. Era un personaggio di spicco della mafia siciliana. I miei zii lo rispettavano tantissimo». Visite ripetute, racconta Moio. «Il primo incontro con Maugeri è avvenuto prima della morte di Mico Tegano, in inverno. Poi è venuto diverse volte dopo la sua morte. Lui si fermava sempre per tre-quattro giorni». Per fare cosa, Moio non lo sa dire. A quelle riunioni – afferma – erano ammessi «solo i numeri uno, i capi».

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