Gio. Apr 25th, 2024

REGGIO CALABRIA «Io sono allibita, spiazzata, sconcertata. Ma devo rimanere lucida per capire se mio marito è innocente, e quindi va tirato fuori dal carcere, o se ha delle responsabilità. Perché se risulterà colpevole io, figlia di un servitore dello Stato ucciso dalla ‘ndrangheta, resterò dalla parte dello Stato», dice tra le lacrime Ivana Fava, 34 anni, moglie di Nino Creazzo, arrestato dalla polizia con l’accusa di «scambio elettorale politico-mafioso». Ma prima ancora figlia dell’appuntato dei carabinieri Antonino Fava, assassinato insieme al collega Vincenzo Garofalo il 18 gennaio 1994 alle porte di Reggio Calabria: delitto di collegato alla cosiddetta trattativa Stato-mafia, secondo la ricostruzione che ha portato a un processo in cui Ivana Fava è parte civile contro i boss imputati, assistita dall’ex pm, oggi avvocato, Antonio Ingroia. In più, lei stessa è stata carabiniere fino al 31 dicembre scorso, ufficiale della riserva selezionata con mansioni amministrative presso la scuola dell’Arma, intitolata al padre.

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Una vita dalla parte delle vittime e delle istituzioni, insomma. Finché l’inchiesta della Procura reggina ha svelato che gli affari della cosca Alvaro erano arrivati dentro casa sua, attraverso il marito Nino e il cognato Domenico (neoconsigliere regionale per Fratelli d’Italia) accusati di avere chiesto voti alla ‘ndrangheta «in cambio della disponibilità a soddisfare gli interessi e le esigenze dell’associazione mafiosa». Ivana Fava stenta a crederci: «Per come conosco mio marito non penso che possa essere un affiliato alle cosche, ma ora deve dare delle spiegazioni. Prima ai magistrati, poi a me. Io non sono un giudice, però voglio sapere che ha combinato. E che cosa è accaduto». E’ accaduto, per esempio, che Nino Creazzo frequentasse e fosse amico di Domenico Alvaro, boss della omonima cosca con 7 anni di pena già scontati per ’ndrangheta e riarrestato l’altro giorno. E che agli atti dell’inchiesta ci sia una foto, scattata in un ristorante, nella quale Alvaro e sua moglie Grazia sorridono accanto a Creazzo e sua moglie, Ivana Fava. Che ora ricorda: «Nino e Domenico Alvaro sono cresciuti insieme da ragazzini, e io e Graziella pure. E’ stata la mia migliore amica da quando eravamo bambine, ed è nipote di un mio zio acquisito. Poi ha fatto quel matrimonio, e da allora ci siamo sentite raramente. Io sapevo chi era Domenico Alvaro, ma ognuno fa le sue scelte. Quella cena me la sono trovata organizzata, ed è stata motivo di discussione con mio marito. Tante volte mi sono arrabbiata con lui per certe sue frequentazioni, se ci sono le intercettazioni in casa sentiranno anche le mie urla». In realtà gli investigatori hanno riportato un’intercettazione in cui Ivana Fava ride quando il marito le racconta di essersi rivolto a certi personaggi per aiutare un amico vittima degli usurai, e lei ora spiega: «Se hanno scritto che ridevo forse bisogna riascoltare tutto. Perché proprio in quella vicenda io avevo consigliato di seguire altre strade, non credo che si possa dedurre che ero d’accordo con mio marito. Io lo contestavo…», e la voce si rompe nuovamente nel pianto. Come quando cerca di spiegare un’altra frase intercettata dalla polizia, quando al marito che le parla dell’incontro con un generale in rapporti con l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, lei «ribatte che il ministro deve fare qualcosa per lei»: «Dal 1994 Salvini è stato l’unico politico che ha voluto omaggiare mio padre, e io ho apprezzato quel gesto. Forse ho detto quelle parole perché cercavo qualcuno a cui rivolgermi per ottenere l’equiparazione al grado di ufficiale ricoperto nell’Arma, ora che sono rientrata al ministero della Difesa come civile. Ma sono discorsi che si fanno tra marito e moglie, io non volevo niente. Quando Nino mi ha proposto di candidarmi come sindaco a Sant’Eufemia ho risposto di no. Mi dispiace…». Un sospiro, poi continua: «Lui ha un modo di parlare un po’ esagerato, io gli dicevo sempre di stare attento ma non potevo controllarlo in tutto. Questa storia dell’elezione del fratello era diventata un’ossessione, chissà a chi si è rivolto… Doveva rappresentare il cambiamento, per non lasciare la politica in mano ai criminali». Si blocca, intuendo il paradosso; perché l’inchiesta racconta che proprio con quella candidatura si sarebbe realizzata l’infiltrazione della ‘ndrangheta nella politica calabrese. Riprende: «Capite in che situazione mi trovo? Non so che pensare. Ora sono venuta da mia madre, ne avevo bisogno. Anche lei è senza parole, ma come sempre è lei che conforta me».

di Giovanni Bianconi e Carlo Macrì 26 feb 2020

FONTE CORRIERE DELLA SERA

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