Ven. Apr 19th, 2024

di Eugenio Nastasi

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* Foto in Copertina di Luigi Graziano

Una tradizione che oggi si riprende con un sospiro di sollievo dopo il fermo della pandemia, il ritorno ad un appuntamento serale di allegre brigate di tutte le età sparse in ogni rione della città, un avvenimento che, negli ultimi anni, è diventato l’occasione di far notte col ristoro di ogni ben di Dio preparato e offerto ai passanti dalle famiglie che organizzano i fuochi. Oggi è una festa di primavera quella del 24 aprile, vigilia di San Marco, un’antica tradizione che ha origine, però, nella notte del 24 e nel giorno del 25 aprile del 1836. Sono stati i giorni del terremoto che colpì l’agro rossanese e i paesi vicini e che provocò lutti, distruzione di abitazioni, interi quartieri completamente ribaltati dal luogo originario. Solo Corigliano lamentò danni anche gravi a cose e abitazioni ma non vi furono vittime, e lo scampato pericolo fu attribuito alla protezione di s. Francesco di Paola, da qui i festeggiamenti in onore del Santo il 25 aprile. 

I documenti che danno conto del triste evento sono stati raccolti, per iniziativa del dr. Martino Rizzo, nell’Antica Biblioteca di Corigliano-Rossano, e si può avere un dettagliato reportage, scritto con la lingua dell’epoca, dei casi più salienti, compresi il numero dei morti e delle abitazioni danneggiate e inagibili, cartine topografiche che illustrano i danni agli edifici più nobili quali la Cattedrale e i conventi dei Cappuccini e dell’Abazia del Patir. Si ha notizia, tra l’altro, del mutato assetto delle strade dei rioni cittadini che, originariamente a livello stradale, dopo le scosse si trovarono precipitati in enormi avvallamenti che col tempo divennero Vallone del grano e S. Nicola al Vallone. C’è anche una lapide posta sul muro dell’antico convento di s. Bernardino, sullo spiazzo di palazzo Martucci, che fa memoria della costruzione di baracche nell’orto della cappella di s. Giovanni Battista per dare asilo ai cittadini rimasti senza tetto. 

Non sono bravo coi numeri, ma dovremmo essere attorno al 186esimo  appuntamento con la tradizione dei fuochi, i primi dei quali furono accesi la notte del 1836 nei vicinati per dar calore ai sopravvissuti al sisma che trascorsero la notte accanto ai fuochi.  Nelle ultime edizioni le varie amministrazioni cittadine che si sono alternate alla guida della città hanno, come dire, adottato l’evento facendolo diventare una festa cittadina con grandissimo concorso di avventori da fuori. In sostanza si parte, qualche giorno avanti, con la distribuzione nei rioni più noti di Rossano, di cataste di legna che formeranno l’attrazione una volta accese. Varie categorie associative si ingegnano inoltre di circondare i fuochi con panchette e tavolate di prodotti locali, a cominciare dal vino paesano, da far assaggiare ai numerosi visitatori.

Certo i fuochi di s. Marco della mia fanciullezza, a s. Martino, avevano un sapore diverso; c’era una consuetudine stretta tra famiglie del vicinato che mettevano in comune le loro provviste con la gioia della condivisione. La legna che doveva formare la pira, più alta era più diventava un vanto, facilmente superava i due metri e più, e nel vuoto della piramide si gettava di tutto: sedie sfondate, pezzi di mobili inutilizzabili, scope vecchie, fascine raccolte nei campi, rami di ulivo per fare più stizze. Infine su di un manico di scopa si infilava un cencio come bandierina. Noi ragazzini eravamo sempre in movimento per aiutare i grandi nella sistemazione dei ciocchi, c’era sempre chi voleva strafare ma poi ci affidavano il compito di sistemare sedie e scanni tutto intorno.

E finalmente arrivava la sera, il rito cominciava con mastro Peppino che dava fuoco a una “scrangula”, un’asse consumata di legno di pino, e l’accostava in basso alla fascina che fungeva da miccia e partiva la fiamma. Subito dopo la fiamma diventava più alta e lambiva la legna soprastante e tutto intorno s’illuminava. Io ho ancora negli occhi i volti dei miei compagni che restavano “ncialati” a veder crescere le fiamme come lingue fiottanti. Intanto con la sera scendevano dalle case o sbucavano dai vicoli le comari con le teglie di cibi cotti coperte con canovacci per sistemarle sui tavoli nell’angolo più lontano, arrivavano quindi i più anziani avvolti nei mantelli portandosi la sedia, si formava la ruota attorno al fuoco, si distribuivano le pietanze, si brindava in attesa del primo grande crollo su se stessa della cima della pira ardente, si consumava il cibo tra commenti, urla di noi ragazzini per la grande attesa. Quando la catasta ormai bruciava tutta cominciando a prendere forma di enorme braciere, con stizze in aria e fumo, finalmente si rompeva il cerchio delle sedie, si formava un corridoio dove a turno giovani adulti e i ragazzi più svelti davano inizio a rincorse incrociate per scavalcare con un salto solo, tra grida e schiamazzi, le alte vampe. E si andava avanti fino a notte fonda, fino a quando la brace perdeva calore e luce, il freddo della sera si impadroniva degli anziani seduti e la stanchezza dei salti lasciava adito ai primi sbadigli di noi adolescenti.

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