Ven. Apr 19th, 2024

È stato indicato dalla Procura di Locri come uno dei testi chiave dell’indagine “Xenia” da cui è
scaturito il processo contro l’ex sindaco di Riace Domenico Lucano e altri 17 imputati. L’altro ieri,
però, il 50enne residente a Riace, è stato condannato a 2 mesi di reclusione per minaccia aggravata
dal giudice monocratico del Tribunale di Locri. Il magistrato ha ritenuto colpevole l’imputato di aver
minacciato la persona offesa «profferendo all’indirizzo del nipote – si legge nel capo di imputazione –
la seguente frase: “Se viene qua a dire o fare qualcosa lo faccio a pezzettino. Stavolta ok, io ho
avvertito”».
Il giudice ha condannato l’imputato anche al risarcimento del danno in favore della costituita parte
civile difesa ed assistita dall’avv. Andrea Daqua, uno dei difensori di Mimmo Lucano nel processo
“Xenia” insieme all’avv. Giuliano Pisapia.
Secondo quanto ha evidenziato la Procura di Locri nel corso della requisitoria del primo grado del
processo al modello di accoglienza diffusa praticata a Riace «l’indagine “Xenia” trova le sue origini in
primis nella denuncia-querela di F. R.; un negoziante di Riace che, come emerso in istruttoria, aveva
rapporti di credito con l’associazione “Città Futura” e che, stremato dalle richieste di Capone e
Lucano di emettere fatture “gonfiate” per vedersi corrisposte le somme dei pocket money, decideva di
sporgere querela». La conseguente attività investigativa posta in essere dalla Guardia di Finanza di
Locri è consistita nel riscontrare, attraverso attività tecnica, acquisizioni documentali ed escussione a
sommarie informazioni le asserite irregolarità segnalate nella querela del 50enne.
La credibilità dell’allora negoziante, sul quale si è poggiata una parte della tesi accusatoria, è stata
indebolita nel corso della testimonianza resa dal 50enne nel corso del dibattimento quando,
all’udienza dell’11 gennaio 2021, su specifica domanda, aveva riferito di non aver subito alcuna
minaccia da parte di Mimmo Lucano. Eppure l’ex amministratore veniva accusato anche di
concussione ai danni dell’esercente riacese che si sarebbe concretizzata in concorso con Antonio
Capone. Il primo in qualità di pubblico ufficiale, sindaco del Comune di Riace, nonché Ente attuatore
dei progetti Sprar e Cas e ritenuto «presidente di fatto dell’associazione “Città Futura”» e il secondo
in qualità di presidente dell’associazione “Città Futura”. I due, secondo l’accusa avrebbero «con
abuso dei poteri inerenti un pubblico servizio, costretto un esercente a consegnare fatture per
operazioni inesistenti, riguardanti la vendita di detersivi, minacciando in caso contrario il non
pagamento dei bonus fino a quel momento raccolti dall’esercente». Nel corso dell’esame l’esercente
ha riferito di non aver subito alcuna minaccia da parte di Mimmo Lucano. Una circostanza che, in
effetti, non emergeva nella prima denuncia-querela che il 50enne aveva presentato nel dicembre del
2016 alla Guardia di Finanza. Il nome di Lucano emerge, invece, in un successivo verbale di
sommarie informazioni redatto a marzo del 2017. All’epoca a documentare l’assenza di minacce al
50enne c’era anche il contenuto di una serie di messaggi avvenuti tra lui e Lucano attraverso
l’applicazione whatsapp, evidenziati nel corso di quell’udienza dall’avv. Andrea Daqua, difensore
dell’ex sindaco.

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È stato indicato dalla Procura di Locri come uno dei testi chiave dell’indagine “Xenia” da cui è
scaturito il processo contro l’ex sindaco di Riace Domenico Lucano e altri 17 imputati. L’altro ieri,
però, il 50enne residente a Riace, è stato condannato a 2 mesi di reclusione per minaccia aggravata
dal giudice monocratico del Tribunale di Locri. Il magistrato ha ritenuto colpevole l’imputato di aver
minacciato la persona offesa «profferendo all’indirizzo del nipote – si legge nel capo di imputazione –
la seguente frase: “Se viene qua a dire o fare qualcosa lo faccio a pezzettino. Stavolta ok, io ho
avvertito”».
Il giudice ha condannato l’imputato anche al risarcimento del danno in favore della costituita parte
civile difesa ed assistita dall’avv. Andrea Daqua, uno dei difensori di Mimmo Lucano nel processo
“Xenia” insieme all’avv. Giuliano Pisapia.
Secondo quanto ha evidenziato la Procura di Locri nel corso della requisitoria del primo grado del
processo al modello di accoglienza diffusa praticata a Riace «l’indagine “Xenia” trova le sue origini in
primis nella denuncia-querela di F. R.; un negoziante di Riace che, come emerso in istruttoria, aveva
rapporti di credito con l’associazione “Città Futura” e che, stremato dalle richieste di Capone e
Lucano di emettere fatture “gonfiate” per vedersi corrisposte le somme dei pocket money, decideva di
sporgere querela». La conseguente attività investigativa posta in essere dalla Guardia di Finanza di
Locri è consistita nel riscontrare, attraverso attività tecnica, acquisizioni documentali ed escussione a
sommarie informazioni le asserite irregolarità segnalate nella querela del 50enne.
La credibilità dell’allora negoziante, sul quale si è poggiata una parte della tesi accusatoria, è stata
indebolita nel corso della testimonianza resa dal 50enne nel corso del dibattimento quando,
all’udienza dell’11 gennaio 2021, su specifica domanda, aveva riferito di non aver subito alcuna
minaccia da parte di Mimmo Lucano. Eppure l’ex amministratore veniva accusato anche di
concussione ai danni dell’esercente riacese che si sarebbe concretizzata in concorso con Antonio
Capone. Il primo in qualità di pubblico ufficiale, sindaco del Comune di Riace, nonché Ente attuatore
dei progetti Sprar e Cas e ritenuto «presidente di fatto dell’associazione “Città Futura”» e il secondo
in qualità di presidente dell’associazione “Città Futura”. I due, secondo l’accusa avrebbero «con
abuso dei poteri inerenti un pubblico servizio, costretto un esercente a consegnare fatture per
operazioni inesistenti, riguardanti la vendita di detersivi, minacciando in caso contrario il non
pagamento dei bonus fino a quel momento raccolti dall’esercente». Nel corso dell’esame l’esercente
ha riferito di non aver subito alcuna minaccia da parte di Mimmo Lucano. Una circostanza che, in
effetti, non emergeva nella prima denuncia-querela che il 50enne aveva presentato nel dicembre del
2016 alla Guardia di Finanza. Il nome di Lucano emerge, invece, in un successivo verbale di
sommarie informazioni redatto a marzo del 2017. All’epoca a documentare l’assenza di minacce al
50enne c’era anche il contenuto di una serie di messaggi avvenuti tra lui e Lucano attraverso
l’applicazione whatsapp, evidenziati nel corso di quell’udienza dall’avv. Andrea Daqua, difensore
dell’ex sindaco.

fonte gazzetta del sud

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