Mar. Apr 23rd, 2024

 Due associazioni ben organizzate con relativi sottogruppi, che si accaparrano ingenti guadagni illeciti attraverso il contrabbando di prodotti petroliferi, evadendo imposte ed accise e reimpiegando i proventi in attività commerciali da alcuni di loro svolte, dando parte della mazzetta al boss Luigi Mancuso. Nelle 552 pagine delle motivazioni della sentenza che il 5 ottobre scorso ha portato il gup distrettuale del Tribunale di Catanzaro Paola Ciriaco a infliggere 19 condanne nei confronti di 22 imputati, giudicati con rito abbreviato, coinvolti nell’inchiesta della Dda Petrolmafie spa, il cui troncone catanzarese è stato ribattezzato “Dedalo” (LEGGI), vengono spiegate le cointeressenze tra il gruppo vibonese, collegato a doppio filo con la articolazione ‘ndranghetistica di Limbadi, confermando le attività illecite del clan Mancuso nel florido commercio fraudolento di prodotti petroliferi e imprenditori napoletani, catanesi e reggini a loro volta coinvolti in associazioni criminali operanti in quei territori.

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“Pacifica l’esistenza di un’associazione a delinquere”

Per il gup, sulla scorta delle emergenze investigative, è pacifica la configurabilità di un’associazione a delinquere stabilmente dedita al commercio illegale di prodotti petroliferi di scarsa qualità. Si tratta di olii minerali miscelati con carburante in evasione dell’Iva e delle accise dovute, sugli scambi di prodotti petroliferi destinati al consumo. Il gruppo è costituito da numerosi componenti, suddivisibili in due sottogruppi quello dei calabresi e quello dei siciliani, capaci di rifornirsi abitualmente di carburante di dubbia provenienza e di diffonderlo sul mercato, previa miscelazione con solventi-gasolio-olio. La sussistenza di uno stabile accordo tra i sodali così come la loro consapevolezza di operare all’interno di una struttura più ampia, emerge, si legge nelle motivazioni della sentenza, dai frequenti contatti ed incontri tra loro, dalla loro reciproca cooperazione e dalla direzione e coordinazione delle attività operata dai fratelli D’Amico, Giuseppe e Antonio, imprenditori vibonesi, nei cui confronti è in corso il processo dibattimentale, Domenico Rigillo, di San Vito sullo Ionio e Salvatore Giorgio di Catanzaro, condannati in primo grado con rito abbreviato.

“Si sfilavano i cellulari dai pantaloni per non essere intercettati”

L’esistenza di un vincolo associativo che lega gli imputati al raggiungimento di uno scopo comune si ravvisa nella condivisione di una contabilità comune finalizzata a definire le movimentazioni di denaro, di carburante e a stabilire i guadagni spettanti a ciascuno. E per questo motivo ogni sabato si riunivano, tra gli altri, i fratelli D’Amico, Giorgio e Rigillo,  per concordare le pratiche delle vendite in nero e della sovra fatturazione. Vincolo associativo che emerge anche da un prezziario concordato, da una cassa comune, dalla predisposizione di una rete citofonica per le comunicazioni tra sodali, che facevano uso della messaggistica whatsapp e dell’applicazione Telegram per eludere le intercettazioni, così come erano soliti sfilarsi i cellulari dai pantaloni e abbandonarli in macchina per evitare di essere intercettati. Si  avvalevano anche di utenze riservate per le comunicazioni tra loro, attraverso una pluralità di apparati di telecomunicazione mobile, muniti di sim intestata a terzi soggetti ignari, per lo più di nazionalità straniera, interconnessi tra loro in modalità citofonica. Ma i sodali la maggior parte delle volte preferivano incontrarsi de visu e all’esito degli incontri decidevano di disfarsi dei telefoni. Concordavano le versioni da fornire agli inquirenti in caso di controlli, come emerso in occasione dei sequestri effettuati il 5 e il 9 agosto: gli autisti dell’organizzazione all’atto del fermo dei mezzi da parte di Forze di polizia dichiaravano di essere partiti dalla Sicilia e che il destinatario del prodotto per problemi nei pagamenti aveva dovuto rifiutarlo rimandando il carico al mittente. Erano soliti distruggere ogni traccia cartacea dei calcoli effettuati dai membri dell’organizzazione, tra i quali vigeva la regola del mutuo soccorso.

Le tangenti al boss Mancuso e l’aggravante mafiosa

Parte dei proventi finivano nelle tasche di Luigi Mancuso, capo indiscusso della provincia di ‘ndrangheta del Vibonese e in contatto diretto con l’imprenditore Giuseppe D’Amico, tra i quali esisteva un accordo a monte. Le pretese economiche del boss non erano legate, come sottolineato dal gup, ad un qualche suo coinvolgimento diretto nell’affare, ma integravano la richiesta di una tangente da corrispondere al capo locale per l’avallo dell’affare, di cui i sodali erano a conoscenza. In una conversazione intercettata Giorgio Salvatore sollecitava D’Amico per reperire un altro canale di approvvigionamento di prodotto migliore di carburante e il suo interlocutore ribadiva quelle che erano le trattative in corso, parlando di un canale della Slovenia, questioni per le quali aveva avuto pieno mandato di agire da Luigi Mancuso “..all’esterno… alla Slovenia… vi sto dicendo di si …si… vi sto dicendo che se vanno in porto… e vanno sicuro perché …  mi ha detto che me la vedo totalmente io… Ti sto dicendo che te la devi vedere tu.. si me la vedo io…” Da queste ultime battute di D’Amico attribuibili a Luigi Mancuso, emerge la consapevolezza da parte di Salvatore Giorgio, non solo delle dinamiche associative in cui i D’Amico sono coinvolti con i Mancuso, ma anche del fatto che i canali di approvvigionamento di prodotto petrolifero che i fratelli vibonesi riescono a reperire e mettono poi a disposizione, avvenivano con l’apporto della consorteria. Non solo Giorgio ma anche Rigillo e Orazio Romeo erano a conoscenza del fatto che D’Amico era inserito all’interno di un circuito mafioso, interfacciandosi direttamente con il suo massimo esponente Luigi Mancuso, risultando provata l’aggravante mafiosa. Orazio Romeo aveva contezza  dei soggetti con cui stava entrando in affari, già nel 2018. Infatti in occasione di un incontro tra Giuseppe D’Amico, Luigi Mancuso, Giuseppe Mancuso, 74 anni, intesso Peppe ‘mbrogghia e Francesco D’Angelo, inteso Ciccio a ‘Mmaculata, aveva preso parte alle trattative con esponenti di Cosa Nostra, finalizzata a determinare l’orientamento della ‘ndrangheta calabrese circa l’opportunità o meno di aderire alla strategia stragista dei corleonesi.  “E’ indubbio che Romeo avesse consapevolezza della contiguità dei D’Amico alla cosca Mancuso, e nonostante ciò abbia proseguito gli affari illeciti –  scrive il gup – consentendo agli esponenti del sodalizio di avere degli introiti derivanti dal contrabbando dei prodotti petroliferi. I rapporti tra Romeo e D’Amico sono stati mediati dagli esponenti della cosca stessa”.

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