Il consiglio di Stato rigetta la richiesta degli eredi Guiscarsi. Il Comune dovrà pagare solo l’indennizzo di esproprio fissato a 112 milioni di lire.
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Il Consiglio di Stato ha messo la parola fine ad una contesa giudiziaria antichissima relativa agli espropri del campo sportivo di Monasterace, chiudendo la vertenza tra la famiglia Guiscardi difesa in giudizio dagli avvocati Francesco Scaglione e Carolina Valensise ed il comune ionico, il cui rappresentate pro tempore, il sindaco Cesare Deleo, ero lo stesso che condusse tra fine anni 70 e primi anni 80 l’esproprio dei terreni nel quale è stato costruito il terreno “Bosco-Lombardo”.
Il Consiglio di Stato (presieduto dal giudice Vito Poli e composto dai consiglieri Oberdan Forlenza, Giuseppe Castiglia, Daniela Di Carlo, e Giuseppa Carluccio estensore del provvedimento) ha rigettato la richiesta degli eredi Guiscardi che si appellavano alla sentenza del Tar della Calabria – sezione staccata di Reggio Calabria – n.248 del 12 maggio 2008, resa tra le parti, concernente risarcimento danni da occupazione abusiva. Il comune dovrà in sostanza pagare semplicemente l’indennità di esproprio fissata all’epoca a 112 milioni di vecchie lire (probabile anche gli interessi legali), ma non indennità aggiuntive. Comune difeso dagli avvocati Pietro Alvaro e Valerio Zimatore.
La controversia concerne un terreno oggetto di procedura ablativa da parte del Comune per la costruzione di un campo sportivo nel 1979, il comune dichiarò la pubblica utilità e indifferibilità dell’opera e fissò in quattro anni dalla data delle delibera il termine (3 dicembre 1983) per il completamento dei lavori e delle espropriazioni. L’occupazione di urgenza fu autorizzata (decreto 24 marzo 1980, n. 2) per cinque anni dall’immissione in possesso (in data 18 aprile 1980), mentre decreto di esproprio intervenne in data 9 aprile 1986. La causa legale parte nel 1989 con un ricorso in Corte d’Appello delle eredi Guiscardi sulla somma dell’indennità di espropri. Corte d’appello che giudicò legittima la stima dell’indennità di esproprio data all’epoca ma riconobbe alle ricorrenti l’indennità di occupazione, ovvero quella per il possesso del bene da parte del comune da esproprio fissata a 112 milioni di lire. Nel 2007, trascorsi circa 21 anni dalla emanazione del decreto di esproprio, la proprietarie del terreno adirono il Tar e invocarono la dichiarazione di pubblica utilità, non trovando applicazione le proroghe legislative concernenti i termini delle occupazioni, chiesero il risarcimento del danno per equivalente da perdita della proprietà. Il Tar aveva in sostanza respinto la domanda e le appellanti hanno fatto ricorso con la memoria del 7 giugno 2016, nella quale le appellanti hanno prodotto la sentenza della Corte di Cassazione (n. 26671 del 2013) e l’ordinanza della stessa Corte, n. 18750 del 2015, che ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione avversa la prima. Il Comune ha replica con due memorie depositate in data 20 e 25 settembre 2017. Il Consigli di Stato ha osservato in merito al giudizio della Cassazione che “la Corte di cassazione ha deciso l’opposizione alla stima dell’indennità di espropriazione, senza essere a conoscenza della pendenza di un pendenza di un processo amministrativo pregiudicante, col risulto di tenere comunque ferma la stima della indennità a suo tempo liquidata dall’Amministrazione nel decreto di esproprio (che sarà pertanto tenuta a versare alle signore Guiscardi oltre interessi legali fino al soddisfo)”. La sentenza definitiva ha quindi stabilito che “le ricorrenti hanno domandato il risarcimento del danno (in assoluto dinanzi al giudice amministrativo per la prima volta) solo nel corso dell’anno 2007 (dopo ben 21 anni dall’emanazione del decreto di esproprio) e solo dopo che, in sede di giudizio di opposizione alla stima, la Corte di appello aveva rigettato nel merito la pretesa di rideterminazione della entità della indennità di esproprio, facendo poi valere nel presente giudizio la sopravvenuta dichiarazione di improcedibilità della domanda di opposizione alla stima, resa in un giudizio subordinato a quello amministrativo (dal punto di vista logico giuridico) per giunta senza che fosse stata rappresentata la pendenza del giudizio pregiudicante (concluso con la odierna decisione)”. In conclusione per la corte giudicante la scelta di non avvalersi del forme di tutela specifiche che plausibilmente avverrebbero evitato il danno ora preteso, in una con l’uso abusivo degli strumenti processuali apprestati dall’ordinamento, integra violazione dell’obbligo di cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l’effetto, impedisce il risarcimento del danno evitabile. A tanto consegue il rigetto dell’appello. Le speso processuali del grado sono integratemene compensate in ragione della novità e complessità delle questioni trattate. Restano invece a carico dei ricorrenti le spese della consulenza tecnica espletata in primo grado.
VINCENZO RACO