Sono già quasi 6 mila le persone che hanno aderito alla campagna ‘Io non sono il mio tumore’, con una firma sul portale www.dirittoallobliotumori.org. Lo scopo del progetto è ottenere la legge per il Diritto all’oblio oncologico. Un risultato importante, a soli dieci giorni dal lancio dell’iniziativa promossa da Fondazione AIOM (Associazione italiana di oncologia medica) insieme ad AIOM e alle associazioni pazienti IncontraDonna, aBRCAdabra e APAIM. In questi ultimi giorni si sono unite alla campagna anche AIL – Associazione Italiana Leucemie, Linfomi e Mielomi, SIE – Società Italiana di Ematologia e AIEOP – Associazione Italiana Ematologia Oncologia Pediatrica. La legge permetterebbe alle persone guarite da un cancro di non dover più dichiarare la malattia durante la stipula di contratti di lavoro, la richiesta di mutui, l’adozione di un figlio. Oggi, infatti, è ancora necessario comunicare se si è stati in cura per una neoplasia, obbligo che porta spesso a subire discriminazioni sociali. Questo primo risultato della campagna è stato presentato in occasione del convegno ‘Dottore, sono guarito?’, promosso da Fondazione AIOM in occasione della Giornata mondiale contro il cancro. “Siamo molto soddisfatti del numero di firme raggiunto in questi primi giorni – afferma Giordano Beretta, presidente di Fondazione AIOM – perché sottolinea l’interesse delle persone verso questa legge. In Italia, oggi, vivono 3,6 milioni di cittadini a cui è stato diagnosticato un tumore e circa 1 milione è guarito. Per loro vogliamo impegnarci a ottenere l’approvazione della norma. L’obiettivo dell’iniziativa è il raggiungimento di 100.000 firme, che verranno portate al Presidente del Consiglio per chiedere l’approvazione della legge”. Oggi, in Europa, già cinque Paesi hanno emanato la norma per il Diritto all’oblio oncologico: Francia, Lussemburgo, Belgio, Olanda e Portogallo. “Chiediamo che l’Italia segua l’esempio dei Paesi virtuosi europei che negli ultimi due anni si sono preoccupati di garantire agli ex pazienti il diritto a non vivere la malattia come uno stigma sociale”, conclude Beretta.
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