Dom. Mag 19th, 2024

 

Impossibile credergli. Per chiunque. Giuseppe Calabrò, il killer dei Carabinieri uccisi e feriti nei tre agguati consumati a Reggio a cavallo tra il 1993 e il 1994, un lungo passato seppure decisamente ondivago da collaboratore di giustizia avviato subito dopo essere stato incastrato come colui che imbracciò fucile e M12 con al fianco Consolato Villani (all’epoca dei fatti minorenne, ed adesso pentito di ‘ndrangheta), ritratta in un’Aula di giustizia ciò che anni addietro aveva svelato su mandanti e movente degli attentati all’Arma dei Carabinieri per poi fare una clamorosa marcia indietro su pressione – secondo gli inquirenti – della famiglia (ed adesso la madre, Marina Filippone, è accusata di minacce al figlio per indurlo a ritrattare le accuse mosse).
Sul banco dei testimoni nel processo «’Ndrangheta stragista» ieri in Corte d’Assise a Reggio, Giuseppe Calabrò ha proseguito sulla strada della ritrattazione aggrappandosi però a spiegazioni fragilissime, lacunose. E inaccettabili. Giuseppe Calabrò, incalzato dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, ha accettato di ripercorrere la sua partecipazione ai tre agguati (per i quali lui e Villani sono stati condannati definitivamente) crollando miseramente sulla dinamica della sparatoria di Scilla quando furono giustiziati i Carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. La sua verità è improponibile quando spiega che «dopo aver rubato un’Opel Astra a Melito si erano recati a Palmi cercando uno svincolo per rientrare verso Reggio. E di rientro, fermatosi sulla piazzola tra Scilla e Bagnara, nascondendosi in attesa che passasse una macchina delle Forze di Polizia per poi mettersi all’inseguimento verso Reggio e consumare l’agguato all’altezza di Ravagnese; e che per una coincidenza scattò il conflitto a fuoco nel tratto di A3 che guarda la Costa Viola».
Che abbia sparato, e come l’abbia fatto, lo ricorda bene. Primo, secondo, e terzo agguato. Sulle ragioni, sue e di Consolato Villani, abbozza una spiegazione: «Volevamo attirare l’attenzione delle forze dell’ordine su casa nostra, su Ravagnese perchè volevo fargliela pagare ai Ficara-Latella che dopo che uccisi per loro il vigile Marino (con un compenso di 5 milioni di lire), mi abbandonarono, anzi volevano ammazzarmi. Consolato Villani invece voleva sottrarre le armi ai carabinieri. Questa è la verità. Mi vergogno di quello che ho fatto. È stata la giovane età, è stata incoscienza. Non mi ha mandato nessuno. Siamo stati noi ragazzi. Io e Villani».
La tesi di Giuseppe Calabrò non regge nemmeno in una sillaba nella spiegazione sulle ragioni della lettera scritta e mai spedita (ma acquisita dagli inquirenti) mentre era in carcere a Ferrara, che gli corresse un detenuto suo amico, e che svelava il ruolo dello zio Rocco Santo Filippone (fratello della mamma ed imputato insieme al corleonese Giuseppe Graviano in «’Ndrangheta stragista» quali mandanti degli attentati ai carabinieri nel quadro di un ampliamento della stagione della tensione che Cosa nostra e Totò Riina portavano avanti per ricattare lo Stato) e l’ombra dei palermitani, servizi segreti deviati compresi, sugli attentati terroristici vissuti a Reggio. E ripete, come fosse una canzoncina imparata a memoria: «L’ho scritta così, senza una ragione, se fosse la verità farebbe pensare a un attacco terroristico… Ma niente era vero. L’ho scritta io ma non so neanche io perché… Sono vere soltanto le cose su come abbiamo sparato, il resto no. Oggi sto dicendo la verità. Non so perché ho scritto quella lettera, è pure fantasia. Ho messo in mezzo persone innocenti. Ero sotto pressione, avevo paura. Oggi dico la verità». La sua verità. Per tanti lacunosa, fantasiosa, illogica. E inaccettabile?

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  • Fonte: Gazzetta del Sud | autore: Francesco Tiziano
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