Gio. Mag 30th, 2024

Apissu (avvenire, che è in qualche modo un abisso), Achò (rumore, eco), Figòmeno (colui che fugge, o che viene bandito), Aspru (bianco: che l’Aspromonte è lucente prima che doloroso), Igghio (sole), Fhocularu (caminetto, braciere), Rìza (radice), Naca (culla), Agapisìa (amorevolezza), Cardìa (cuore), Charàpia (salute), Ismìa o Aniti (insieme), Spiti (casa), Oscìa (montagna), Pethè (volare), Arte (ora), Kalòs (bello, buono), Aposcipo (luogo nascosto), Pappua (nonno), Jamu (andiamo: la storia dell’umanità in una parola), Sto Calombodi (col piede buono), Kerò (tempo), Armacera o Zalarmicu (muretto a secco, un’arte), Pissulu e Stracu (pietruzza, riempie gli armaceri: sei pietra e su questa pietra…), Paparina (papavero), Filoxenia (ospitalità, accoglienza: un destino), Tragudìa (canzone, canto), Rhuakion (ruscello: Riace scorre), Iuhhiu (soffio), Chioni (neve).

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Le parole si accumulano ogni giorno, dopo l’appello lanciato dal più irregolare degli scrittori calabresi: Gioacchino Criaco, quello diventato famoso per le “Anime nere” che ha raccontato solo per poter avere l’attenzione di tutti e raccontare le altre anime, quelle invisibili. Quello che è tornato indietro, che si definisce “capraio” e s’indigna se gli dai dell’intellettuale. Quello che vorrebbe mostrare al mondo che non si tratta di nostalgia, ma di resistenza; che non si progetta un ritorno al passato ma un ritorno al futuro; che i mondi antichi che ci hanno abitati sono ancora lì, pronti a riaccoglierci. Ma dobbiamo saperli nominare ed evocare.

Ed eccolo, il potere della parola, il “fiat lux” (o meglio, in greco, il “ghenetheto phos”). Se non lo sa uno scrittore, chi dovrebbe saperlo? E così Gioacchino ha lanciato, all’inizio del nuovo anno, un appello ai tanti che frequentano le sue pagine: «Ènan lògo tin imèra». “Una parola al giorno” per riconoscere, rinominare, rifondare il mondo. La Calabria, anzitutto, ma in prospettiva, e in trasparenza, ogni mondo, ogni Sud, oggi derelitto ma che potrebbe, dovrebbe, sarebbe più giusto, più umano, possibile, vivo.

«Troveremo una via – ha scritto Criaco – solo costruendo. E un modo per costruire è ritrovare le parole giuste per riannodare i fili di una storia che si è trasformata in cronaca nera. Le parole sono essenziali per un’esistenza collettiva, per essere un popolo, per sbagliare meno. Una parola al giorno e in un anno ci sarà un giardino di parole, una Calabria più vera».

Un’ondata di emozione percorre le bacheche: ogni giorno c’è qualcuno nuovo (altri scrittori calabresi, come Domenico Dara o Giuseppe Aloe, altri artisti e studiosi, ma soprattutto semplici cittadini, fieramente calabresi, orgogliosamente meridionali) a portare la “sua” parola. Grecanica, greca, italiana, calabrese ionica o tirrenica, di scoglio o di montagna. C’è il cuore e c’è la pietra, ci sono saperi e oggetti, sentimenti e arti, il modo antico di far scorrere l’astratto dal concreto, di volare dalle mani all’anima al vento (parole sorelle, infatti).

E dove ci sono parole che si ammucchiano – lungamente meditate, cercate con attenzione nel buio del passato, prelevate con delicatezza da certi scrigni intimi, trascritte con trepidazione dai registri del cuore, del ricordo, della memoria familiare – attorno nasce, spontanea, una comunità. D’altronde, la vera sfida di oggi è cercare le comunità disperse annichilite inerti e ricrearle, come sanno i “paesologi” militanti come Franco Arminio (che ama molto la Calabria e vi torna spesso) e tutti gli inesausti sostenitori di quell’Italia interna che è Italia interiore, e ha un profondo bisogno di essere rivitalizzata, di essere riconsegnata alle ricostruite comunità.

È il linguaggio che ci manca, dice Gioacchino Criaco, e la comunità che del linguaggio è corollario (o viceversa). Il linguaggio per ri-nominare la Calabria (ma può valere perfettamente per tutto il Sud), per raccontarla altrimenti, per incalzarla e raggiungerla altrimenti (che il problema delle narrazioni a volte sono i fatti, certamente, ma le parole sono fatti a loro volta, come sapevano i Greci: il mondo è, anche, tutto ciò che viene detto).

Un lavoro che i più avveduti degli scrittori e degli intellettuali calabresi e meridionali hanno in mente da tempo, che fanno da tempo, come caparbi costruttori d’“armaceri”, quei muri a secco – dichiarati proprio a novembre scorso dall’Unesco patrimonio dell’Umanità – che compendiano un’arte e un’etica severi e antichi: la resistenza e la costruzione del paesaggio, la lotta infinita con la natura e la sorte, il patto con le generazioni future.

«Armacia è la mia parola di oggi – ha scritto Gioacchino – , perché mio bisnonno, Peppi u Roghudisi, era mastro d’armacera e i suoi muri a secco sostengono dopo cento anni falesie terribili in Aspromonte, e pietra su pietra si costruisce un futuro solido». Subito, attorno a quell’ “armacìa” si sono accumulate altre parole, altre pietre, e il mucchietto cresce ogni giorno, propagandosi con la viralità buona del web. L’obiettivo è ambizioso: domare il territorio, ricostruire percorsi spezzati, pensarne di nuovi, trasformare il paesaggio umano. C’è un bel movimento di ritorni e consapevolezze che ci fa sperare: nessuno ha in mente un’età dell’oro inesistente, nessuno porta nostalgie irreali. Ma tutti hanno una gran voglia di usarle, queste pietre-parole, per ricominciare a costruire.

fonte: Anna Mallamo- gazzettadelsud.it

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