Ven. Apr 26th, 2024
fonte: RICCARDO CRISTIANO- http://www.lastampa.it
foto: Domenico Logozzo

Anche quest’anno la fine dell’estate ha portato tantissime processioni e feste patronali nel sud d’Italia. Espressione di una radicata pietà popolare, queste processioni finiscono sovente con l’essere oggetto di attenzione per i tentativi del crimine organizzato di inquinarle, usandole come strumento di conferma del ruolo di propri esponenti. È accaduto anche quest’anno, ad esempio a Vibo Valentia, dove un boss della ‘ndrangheta ha tentato di imporsi tra i portatori dell’effige della Madonna della Neve. Ma è stato contestato e respinto dagli organizzatori, determinando una discussione che ha portato all’intervento delle forze dell’ordine.

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Un segno rilevante di coraggio che sottolinea però l’attacco del crimine organizzato alla pietà popolare, grave e rilevante perché questa indica che tutti i popoli sanno resistere al male e questa resistenza ha qui la sua forma diffusa nel laicato. Tra i tanti vescovi che hanno prestato grande attenzione al problema c’è certamente il vescovo di Locri, Francesco Oliva, nella cui diocesi si svolgono importanti processioni. Negli orientamenti liturgico-pastorali della sua diocesi del 2015 si è soffermato anche sul problema dei portatori, così spesso ricordato dalla cronaca. Ribadita la centralità della celebrazione domenicale e della testimonianza della carità, nella quale sottolinea la qualità dell’evangelizzazione è l’ardore della carità, il vescovo ha scritto anche che non è il caso di insistere su pii esercizi per i quali viene scelta la domenica e quindi aggiunto che «occorre riflettere sul significato di certe pratiche devozionali e sulla loro efficacia evangelizzatrice.» Assistendo ad alcune processioni in effetti è difficile cogliere momenti di spiritualità e di solidarietà.

Da anni il vescovo di Locri e Gerace lavora e risiede in un episcopio che non sorprende più la popolazione, ma nel febbraio del 1954, quando il vescovo Pacifico Maria Perantoni dispose il trasferimento a Locri dalla montana Gerace, il settimo borgo più bello d’Italia, a due passi dall’Aspromonte, ci furono non solo proteste, ma anche scioperi. Locri a quel tempo si chiamava Gerace Marina, a indicare la primazia di questa città dove sono rimasti poco più di duemila abitanti. Le forme bizantine della cattedrale di questo borgo dal nome di origine greca, tra tante testimonianze normanne e molte Chiese che si incontrano dentro le mura, sono conservate benissimo, ma la discesa verso le marine ha segnato il progressivo oblio della complessità storica e delle radici di chi abita in questa terra d’incontri, di accavallamenti e poi dall’emergere della ricerca di un consumismo veloce per sottrarsi all’impoverimento senza identità che ha spopolato tanta parte dell’interno, colpito da migrazioni di massa. La drammatica stagione dei sequestri ha concluso l’opera di impoverimento di questa terra, determinando la chiusura di tante realtà produttive. L’abbandono è diventato spopolamento soprattutto nell’interno. Basti considerare che a Locri oggi vivono quasi 15mila persone, nel comune a quattro chilometri di distanza, Siderno, circa 20mila: tutti a Siderno marina, perché il borgo medievale di Siderno superiore è stato completamente abbandonato, resistendovi un ristorante e un centinaio d’abitanti.

Il vescovo di Locri così guida una diocesi che ha nell’entroterra la fotografia delle vestigia di un passato glorioso e nella frettolosità sregolata dell’area costiera il segno dell’abbandono presente, sempre più grave, come indica un ponte sulla SS 106, nota come la strada della morte, interrotta per le forti piogge tre anni fa. E smottamenti che da anni precludono il transito in strade locali non sono rari. «L’unica strada che ci collega al resto del mondo resiste, ma se dovesse esserci un piccolo problema, uno smottamento, è facile immaginare cosa succederebbe», osserva il vescovo, giunto qui dopo il trasferimento di monsignor Giuseppe Fiorini Morosini. Per accorgersi di vita, passato e tradizioni in tanti di questi centri, di mare o dell’interno, le processioni diventano sempre più importanti, ma non possono che indurre a porsi la domanda che pone monsignor Oliva: come è possibile che una terra così ricca di tradizioni e pietà popolare produca comportamenti opposti al cristianesimo? E che significato assumono importanti feste patronali, come quella di Bianco, famosa per i suoi fuochi d’artificio, o quella di Gioiosa, famosa per i ritmi ossessivi e ripetuti aumentando sempre più la forza della voce di giovani che per ore suonano solo tamburi, tre colpi uno dietro l’altro, seguiti dalla triplice scansione del nome del santo, Rocco.

«Questa processione cominciava al mattino e terminava a ora tarda. Ma in quel modo diventava per alcuni una sagra, per questo ho pensato a regolarne diversamente gli orari, le modalità», dice il vescovo. Alla processione si giunge dopo un ingorgo incredibile e le file di bancarelle che accompagnano dalla periferia di Gioiosa i pellegrini e i visitatori ricordano che il consumismo ha soppiantato tante culture antiche e profonde, ma non il cristianesimo e la Chiesa, che qui restano diffusi e influenti. Ma le riflessioni di monsignor Francesco Oliva aiutano ad andare più in profondità e inquadrare questo fenomeno complesso e importante, connesso con il valore profondo della pietà popolare, un patrimonio che la Chiesa non può perdere, ma neanche veder conquistato da un consumismo inquinato da fattori gravi e dolorosi, che ormai sono il tratto più noto della Calabria. In una lettera pastorale del 2015 il vescovo ha fatto presente che «la fede cristiana, se pure sopravvive in alcune sue manifestazioni tradizionali e ritualistiche, tende ad essere sradicata dai momenti più significativi dell’esistenza, quali sono i momenti del nascere, del soffrire e del morire. Non si può rimanere condizionati da una fede di facciata, troppo arroccata in manifestazioni devozionali, legata a tradizioni che nulla hanno a che fare con la vera fede. Il progressivo processo di separazione tra fede e vita ha dato vita a una religiosità vuota, mettendo in crisi la credibilità dell’impostazione religiosa e facendo prevalere la dimensione ludica, tanto da confondere l’aspetto spirituale con quello folkloristico».

Il suo ragionamento evoca spesso l’evangelizzazione e ricorda profondamente la Evangelii gaudium, lì dove dice: «È imperioso il bisogno di evangelizzare le culture per inculturare il Vangelo. Nei Paesi di tradizione cattolica si tratterà di accompagnare, curare e rafforzare la ricchezza che già esiste, e nei Paesi di altre tradizioni religiose o profondamente secolarizzati si tratterà di favorire nuovi processi di evangelizzazione della cultura, benché presuppongano progetti a lunghissimo termine. Non possiamo, tuttavia, ignorare che sempre c’è un appello alla crescita. Ogni cultura e ogni gruppo sociale necessita di purificazione e maturazione. Nel caso di culture popolari di popolazioni cattoliche, possiamo riconoscere alcune debolezze che devono ancora essere sanate dal Vangelo: il maschilismo, l’alcolismo, la violenza domestica, una scarsa partecipazione all’Eucaristia, credenze fataliste o superstiziose che fanno ricorrere alla stregoneria, eccetera. Ma è proprio la pietà popolare il miglior punto di partenza per sanarle e liberarle».

Proprio per questo lo sforzo è importante, perché oggi è difficile non pensarla così recandosi oggi a Gioiosa, dove per ore di processione non si sente un canto, né si avverte un momento di spiritualità, forse per il martellante rimbombo dei tamburi, e quel nome scandito a tratti con veemenza: e gli stessi balli più che liberatori sembrano ritmici ed evasivi in un contesto commerciale e consumistico che facilmente può prestarsi al business. «Non si tratta di rifiutare la festa, il momento ludico, ma di cercare anche l’incontro con la spiritualità. I problemi sono resi più gravi da alcune problematiche che non vanno taciute. Facciamo l’esempio dei portatori: quante volte sentiamo dire “il Santo lo portiamo noi”. Ma noi chi? Alcune famiglie? Alcuni esponenti di spicco? Ho introdotto una piccola riforma qualche tempo fa, sulle offerte raccolte in occasione dei festeggiamenti», spiega il vescovo. «Il 15% deve essere devoluto in un’opera-segno per un progetto di solidarietà, convinto oltretutto che la generosità non debba essere ostentata. Il nesso tra le processioni, la fede, le tradizioni e la carità semplice, vissuta anche attraverso una percentuale delle donazioni che in certe occasioni si fanno, è naturale. Avrei apprezzato più convinzione, più adesione a questa che mi sembra un scelta coerente con i nostri valori. Come nell’affrontare il problema dei portatori. Se il Santo è davvero di tutti, e non di chi dice “il Santo lo portiamo noi”, allora non è difficile diffondere il modello che abbiamo adottato in un caso, quando i portatori sono stati sostituiti da un carrello trainato da ragazzi e dal popolo».

Il ragionamento di monsignor Oliva tocca l’intreccio delle problematiche, la necessità di rendere davvero la pietà popolare un’opportunità di crescita religiosa e civile. Sindaci anche quando si definiscono non credenti e che pensano di esaltare «la nostra Madonna» con spettacoli di richiamo, concerti di musica rock, danno l’impressione di credere a una sacralizzazione del richiamo turistico senza apprezzare il ricordo di antiche culture, della spiritualità profonda che esse esprimono e degli incroci che testimoniano nella ricchissima tradizione di queste terre. «Uno sguardo sincero non può trascurare alcuni dettagli che a volte dettagli non sono. Fa riflettere – ad esempio – la partecipazione di massa alle esequie di personaggi noti alle forze dell’ordine. La realtà della nostra vita civile non può non coinvolgere la Chiesa, che qui svolge un ruolo importante. Quando Papa Francesco nel giugno 2014 nella piana di Sibari ci ha ricordato nella sua omelia che i mafiosi sono scomunicati, ci ha consegnato un’importante indicazione per la nostra azione pastorale sul modo di porci di fronte ad essi. Ad altri spetta arrestarli o processarli, a noi come Chiesa spetta assumere l’atteggiamento del pastore chiamato ad indicare la strada della conversione, aiutando a capire la gravità di certe scelte criminali che diffondono morte, odio e divisioni, ma anche povertà e sottosviluppo. Come i pastori fanno con la pecora che si allontana o che si perde».

Anche per questo il vescovo ribadisce che la festa patronale «deve essere espressione di fede e di carità. Ad essa vanno legate delle opere-segno, in risposta alle tante necessità dei poveri e del territorio. Il tutto all’insegna di un rinnovamento della pietà popolare e del recupero del suo valore spirituale, che aiuta a vincere la tentazione consumistica e di una visione della festa come momento di godimento esteriore e di evasione». Il tema dei giovani è ovviamente molto importante, delicato: «Questa Locride che conosce il più alto tasso di denatalità in Italia ritrova misteriosamente una crescita della popolazione proprio lì dove più alto è il tasso di disoccupazione», dice Oliva.

Per queste ragioni acquistano peso due esigenze: valutare con attenzione le richieste di istituire nuove feste e che quando siano le confraternite ad organizzarle procedano di concerto con il parroco. Poi ritrovare il legame con la propria storia, con centri storici dissanguati dalle emigrazioni, collegandolo con la propria dimensione attuale, sarebbe importante per ogni territorio. È quello che si è detto il sindaco di Riace, Domenico Lucano, quando si è interrogato sul significato dell’accoglienza spontanea, non organizzata né finanziata, da parte della popolazione, quando vent’anni fa un vascello carico di migranti arrivò da queste parti. Un’accoglienza che a lui, formatosi alla scuola di don Bianchi e molto legato a monsignor Giancarlo Bregantini, sembrava parlare della necessità di arricchire di umanità e nuove culture una terra che rischiava di smarrire la propria, per via proprio del fenomeno migratorio. Nacque così, in anni successivi, l’idea di fare della sua città, dove come sindaco avrebbe dovuto compiere opere pubbliche senza cittadini, una nuova cittadella dell’accoglienza e così di rinascita.

«Non potevo che accogliere con sorpresa e con gioia – dice a Vatican Insider- – l’invito ricevuto nel 2016 dal cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze, monsignor Marcelo Sanchez Sorondo, di partecipare all’incontro in Vaticano dei sindaci di tante città importanti, come i primi cittadini di Madrid e Barcellona per esempio. Ho pensato che questo microscopico comune veniva invitato perché noi abbiamo la testa nel cielo e i piedi nel mare, quel mare che ci ha regalato una storia ricca e intrecciata e poi ci ha tolto tanti fratelli emigrati, ora lo abbiamo riconosciuto non come luogo di consumismo affrettato, ma come un amico che ci donava una nuova vita, nuovi fratelli da soccorrere facendoli soccorritori di noi stessi. Un esperimento bellissimo perché testimone di come la storia e la vita possano rinnovarsi, e portarci sempre avanti».

«In Vaticano – prosegue il primo cittadino – ricordo che il Papa ci seguiva in videoconferenza, e per me era bellissimo pensare che lui, che conosce benissimo la comunità riacese di Buenos Aires per le sue frequenti visite e celebrazioni con questi fratelli emigrati in Argentina, potesse seguire i lavori ai quali anche il sindaco di quella piccola comunità oggi arricchita e ricostruita con tanti fratelli giunti dal Mediterraneo era presente. Così recentemente ho deciso di scrivergli, con un po’ di emozione, visto che lui lo aveva fatto, apprezzando l’incontro di vite e tradizioni che qui a Riace ha luogo e ci rinnova e addirittura ringraziandomi per essere intervenuto. Gli ho chiesto di ricevermi, nella sua casa, quella che so sempre aperta per chi crede nel vivere insieme. Spero possa trovare cinque minuti per parlargli dei problemi dell’oggi, di questo piccolo sforzo».

Le radici cristiane della Locride hanno bisogno di essere innaffiate anche dalla vita del suo entroterra, quello dove le vecchie tradizioni significano ancora tanto nonostante l’incuria e la scarsa presenza delle istituzioni e richiedono impegno civile. «Bisognosa di evangelizzazione, ma non di accantonamento, la pietà popolare è una risorsa utile per formare la coscienza civile, per dare maggiore consistenza al radicamento sul territorio e all’appartenenza a una comunità», conclude monsignor Oliva, un vescovo in prima linea nella Chiesa ospedale da campo che qui vede tante ferite, ma anche nuove energie.

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